“Tutti possiamo collaborare come strumenti di Dio per la cura della creazione, ognuno con la propria cultura ed esperienza, le proprie iniziative e capacità”
Il tema dell’acqua offre molti spunti di riflessione sul tema della transizione ecologica e della natura e gestione dei beni comuni.
Transizione o conversione?
Il termine transizione irrompe nel dibattito pubblico anche grazie alla scelta del Governo italiano di istituire il Ministero della transizione ecologica. La dottrina sociale della Chiesa cattolica, con papa Francesco, propone la tematica della conversione ecologica integrale.
L’idea di conversione ha in sé l’istanza del cambiamento delle relazioni fra gli uomini e con il creato.
La conversione proposta da papa Francesco richiede di costruire nuovi modelli sociali ed economici basati sulla condivisione fraterna dei beni di creazione, sulla giustizia e sulla pace.
Quando si parla di transizione ecologica occorre prestare attenzione nel distinguere fra chi lo usa in maniera coerente con il messaggio della Chiesa cattolica – come nella Settimana sociale di Taranto – da chi lo riduce a un semplice passaggio a tecnologie a minor impatto ambientale senza nessuna volontà di modificare l’attuale modello di sviluppo, anzi per perpetuarne la conservazione.
Parlare di “conversione”, anziché di “transizione”, nulla toglie alla laicità del tema anzi, lo arricchisce della sensibilità, intelligenza e senso, che scaturisce dalla riflessione del credente sul suo rapporto con il Creatore e il creato nel quale, ad ogni persona, è riservata una particolare dignità fra tutte le creature.
I diritti umani
La nobiltà morale dell’uomo passa, nella nostra cultura, attraverso il riconoscimento e la tutela dei diritti innati nella natura umana e come tali universali, inviolabili, imprescrittibili, inalienabili senza il venir meno della dignità della persona. L’effettivo rispetto di questi diritti è indice della qualità e bontà delle relazioni umane. È la condizione che permette all’uomo di progredire materialmente e spiritualmente, di mettere le sue capacità al servizio della sua famiglia e della società, ossia di collaborare alla costruzione del bene comune.
L’accesso all’acqua potabile come diritto umano
Fra i diritti umani oggi rientra anche l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico sanitari.
È evidente che senza la disponibilità di acqua non è possibile la sopravvivenza. Per questo in passato non si riteneva necessario riconoscere il diritto all’accesso all’acqua come diritto specifico e autonomo rispetto al diritto alla vita.
Da quando sono maturate le condizioni economiche e giuridiche che pretendono di legittimare l’esclusione dall’accesso all’acqua a chi non ha risorse economiche sufficienti a pagarne il prezzo è emersa l’urgenza di affermare l’accesso all’acqua come diritto umano autonomo e specifico.
La quantificazione del diritto
Il minimo vitale di acqua è quantificato dall’OMS in 50 litri per persona al giorno. Questa quantità non è garantita neppure in molti dei Paesi che hanno inserito il diritto all’acqua in Costituzione. Si deve ricordare che le risoluzioni ONU non vincolano giuridicamente gli Stati membri, restano atti di indirizzo politico fino a quando non sono recepiti in trattati internazionali, Costituzioni o leggi statali.
Cosa giustifica il prezzo dell’acqua?
Il prezzo dell’acqua viene giustificato dall’esigenza di coprire i costi necessari alla sua captazione, imbrigliamento, potabilizzazione e distribuzione oltreché alla necessità di remunerare i capitali investiti in queste operazioni.
Questa esigenza ha indotto anche il Consiglio dei diritti umani dell’ONU a derubricare l’accesso all’acqua da diritto umano inalienabile a diritto economico, sociale e culturale affidandone la realizzazione a interventi in via sussidiaria degli Stati.
La situazione in Italia
In Italia l’accesso al minimo vitale di acqua è garantito dall’ente pubblico, per l’appunto in via sussidiaria, solo alle fasce più disagiate della popolazione attraverso un “bonus idrico” con finanziamento a carico degli altri utenti-consumatori.
Impronta idrica
Il minimo vitale di acqua non va confuso con l’“impronta idrica”, ossia con la quantità di acqua necessaria per i consumi alimentari, il vestiario e quant’altro ci è più o meno necessario per i bisogni quotidiani. Ad esempio l’impronta idrica del consumo di una tazzina di caffè è circa di 132 litri, per produrre una maglietta di cotone di 2.700 litri.
Diseguaglianze nel consumo idrico
A livello globale è evidente la diversa disponibilità del bene acqua.
Nel Nord America l’acqua potabile estratta per abitante è stimata in 4.350 litri al giorno, in Africa in 650 litri. Parlando di un valori procapite è bene ricordare il famoso pollo della statistica di Trilussa.
Acqua come bene comune o privato
Quale natura giuridica attribuire ad un bene così prezioso per il benessere e lo sviluppo umano?
Quella di bene pubblico o privato? Per riflettere su questo partiamo da una definizione di “beni comuni” restrittiva, ma semplice e convincente, che li identifica nei “beni ad accesso universale” – dai quali nessuno può essere escluso – “perché indispensabili alla riproduzione delle condizioni di esistenza delle generazioni attuali e future”. Certamente l’acqua rientra tra questi beni perché necessaria alla sopravvivenza di qualunque forma di vita. Da questa definizione deriva la caratteristica della “non escludibilità” dai beni comuni, caratteristica che li rende incompatibili con le logiche di mercato.
Il mercato infatti si fonda sul presupposto di escludere dall’accesso ai beni che esistono in quantità scarsa, nel nostro caso l’acqua, chi non sia disposto, o peggio non possa, pagarne il prezzo, facendo invece arrivare questa risorsa a chi può permettersela.
La natura di bene comune dell’acqua, quindi non escludibile, comporterebbe l’impegno per la comunità internazionale e gli Stati di garantirne a tutti l’accesso, in modo gratuito ed equo, con costi a carico dell’intera collettività.
Lasciare l’acqua affidata alle logiche di mercato significa trasformarla da bene comune legato a un diritto universale in ragione della sua “non escludibilità” a bene economico legato a un diritto di proprietà caratterizzato, al contrario, dalla “escludibilità”.
Separazione tra proprietà e gestione
L’esigenza della copertura dei costi per la distribuzione dell’acqua, insieme all’opportunità di ricavare profitti dalla sua commercializzazione, ha indotto la ricerca di nuove vie per legittimare il superamento dell’incompatibilità fra la sua natura di bene comune e il mercato. Si è arrivati così a teorizzare la separazione tra la proprietà del bene – l’acqua – che resta pubblica dalla sua gestione, che anche in nome della maggiore efficienza dei privati, può essere affidata al mercato.
Con questa giustificazione molti Comuni hanno dismesso la gestione diretta dell’acqua per affidarla a società quotate in borsa – come Hera s.p.a. – trasformandosi da gestori di un servizio pubblico in azionisti di società a capitale misto sia pubblico – apportato dai Comuni – sia privato attratto dai profitti legati alla gestione di un bene a cui nessuno può rinunciare.
Effetti distorsivi sull’interesse pubblico
Dai dati rintracciabili in rete si può facilmente osservare che, tra gli azionisti privati di queste società, compaiono gli investitori istituzionali: fondi comuni internazionali, fondazioni bancarie e aziende. Si viene anche a sapere che le quote azionarie detenute dai privati superano quelle in mano pubblica.
Anche se gli enti locali, attraverso un patto di sindacato, mantengono il controllo pubblico sugli azionisti privati, la scelta di operare in forma di s.p.a. quotata in borsa snatura comunque la funzione degli amministratori pubblici.
Questi da rappresentanti eletti dai cittadini a cui è affidata la cura degli interessi della comunità locale si trasformano in azionisti di maggioranza della società di gestione del servizio idrico.
Se come amministratori dovevano rispondere della cura dell’interesse della comunità locale ai cittadini elettori ora, come azionisti di maggioranza, devono rispondere agli altri azionisti privati del mantenimento e dell’incremento del valore delle azioni e dei dividendi. Se falliscono questo obiettivo provocano il ritiro dei capitali investiti nel servizio idrico mettendolo in difficoltà finanziarie.
Per di più anche l’ente pubblico, in quanto istituzione, ha interesse a non veder ridotto il valore delle azioni possedute e, in epoca di tagli alla spesa, ad ottenere alti dividenti utili a finanziare le casse locali vuote.
In ultima analisi la scelta di questa modalità di gestione dell’acqua rischia, nei fatti, di far perdere all’acqua la natura di bene comune e pubblico, la rimette in mano alle logiche di mercato e del lucro in modo odioso perché oltre a tradire l’esito del referendum sull’acqua del 2011, vinto a larga maggioranza, di fatto privatizza e mercifica un bene a cui nessuno può rinunciare.
Alfiero Salucci
Impronta idrica
L’impronta idrica – water footprint) è il volume complessivo di acqua dolce utilizzata per produrre i beni ed i servizi destinati al consumo finale da parte dei consumatori. L’impronta idrica totale risulta dalla somma dell’impronta idrica verde, blu e grigia.
Impronta idrica verde
È il volume di acqua dolce piovana che evapora o traspira, nelle piante e nei terreni senza giunge al ruscellamento. Si riferisce principalmente all’acqua per uso agricolo. Il consumo di acqua verde ha un impatto meno invasivo sull’equilibrio ambientale rispetto al consumo di acqua blu.
Impronta idrica blu
È il volume di acqua dolce prelevato dalle acque superficiali o dalle falde sotterranee per uso agricolo, domestico e industriale, utilizzato e non restituito nel punto in cui è stato prelevato.
Impronta idrica grigia
È il volume di acqua necessaria a diluire la quantità di acqua inquinata per riportarla sopra agli standard qualitativi stabiliti dalla legge.
Il Cantico