Meditazione sul Messaggio del Papa per la Quaresima 2023
Domenica 12 marzo l’incontro mensile della Fraternità Francescana Frate Jacopa, promosso assieme alla Parrocchia S. Maria Annunziata di Fossolo, ha messo al centro la meditazione del Messaggio del Papa per la Quaresima 2023.
La profonda riflessione di Don Stefano Culiersi, qui pubblicata, può essere riascoltata sulla pagina youtube Fraternità Francescana Frate Jacopa.
INTRODUZIONE
1Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. 2E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. 3Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. 4Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». 5Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». 6All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. 7Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». 8Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.
9Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti» (Mt 17,1-9).
L’episodio della trasfigurazione non nasce dal nulla, ma si pone in diretto collegamento con il precedente annuncio della passione e con il fraintendimento di Pietro. “Sei giorni dopo” Gesù, che aveva già risposto alla provocatoria obiezione di Pietro, si incarica non solo di correggere ma anche di proporre ai discepoli una comprensione più profonda del suo mistero di salvezza. Al Maestro non basta infatti soltanto negare l’errore dei discepoli, ma egli vuole anche mostrare la verità da raggiungere. Dopo aver corretto Pietro, che non capisce la necessità che il Figlio dell’uomo venga rifiutato dal mondo (Mt 16,21-23), invita a seguirlo per raggiungere la meta della nostra fede: la salvezza (Cfr. 1Pt 1,9).
L’itinerario viene mostrato anzitutto nella sua durezza. La salvezza sperata infatti è contraria a quella immaginata con le logiche del mondo, e consiste nel negare se stessi, nel farsi carico della condanna del mondo, nella sequela del Signore, aspettandosi quindi il premio non dal riconoscimento e dall’approvazione degli altri, ma unicamente dal Figlio dell’uomo che sta per prendere possesso del suo Regno:
24Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. 25Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. 26Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? 27Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni. 28In verità io vi dico: vi sono alcuni tra i presenti che non moriranno, prima di aver visto venire il Figlio dell’uomo con il suo regno» (Mt 16,24-28).
Questo però non basta. Bisogna accendere il desiderio della meta, altrimenti non si inizia nemmeno il cammino soprattutto se si presenta in tutta la sua difficoltà. Ecco perché “sei giorni dopo” questi primi insegnamenti più aspri, il Signore prende alcuni suoi discepoli e li porta alla contemplazione della sua trasfigurazione. Pietro, svelto di parola tra tutti i discepoli, è ancora una volta colui che si lascia sfuggire quello che ha nel cuore. Lo dobbiamo ringraziare per averci detto, con pochi giri di parole, che quella meta è bellezza che appaga, si fissa per sempre nella mente e ci lascia senza nostalgie di altro (Mt 17,4).
Noi abbiamo bisogno di rifarci gli occhi contemplando questa bellezza per dismettere le logiche del mondo e camminare verso questo traguardo nel desiderio pieno e profondo del Signore Gesù.
Vogliamo allora quest’oggi rileggere il messaggio di papa Francesco per questa quaresima 2023 e camminare insieme a tutta la Chiesa verso il traguardo di bellezza che il Signore prepara per noi in questa Pasqua il prossimo 9 aprile, icona e prefigurazione della Pasqua eterna.
Possiamo infatti scegliere diversi stimoli di contemplazione della bellezza del Signore e del suo mistero, per essere incoraggiati nel nostro cammino, sapendo, però, che se questi percorsi non fossero condotti sentendosi parte di un popolo che cammina insieme a noi, perderemmo qualcosa della grazia di questo tempo santo.
PRENDERE CERTE DISTANZE
Il messaggio del Papa ha un taglio sorprendente, poiché unisce l’ascesi quaresimale a cui si adatta il brano della Trasfigurazione (che appartiene alla liturgia della II domenica di quaresima in tutti i cicli di letture), al presente cammino sinodale, ovvero alla condizione ecclesiale che stiamo attraversando nell’ascolto della realtà e nel discernimento della volontà del Signore sulla vita della Chiesa.
Il Papa vede un parallelismo tra il cammino sinodale e il cammino quaresimale personale, entrambi caratterizzati dalla faticosa “salita” verso una meta che però ci attrae con la sua bellezza.
L’ascesi quaresimale è un impegno, sempre animato dalla Grazia, per superare le nostre mancanze di fede e le resistenze a seguire Gesù sul cammino della croce.
È un cammino in salita che richiede sforzo, sacrificio e concentrazione come un’escursione in montagna. È un cammino che richiede un distacco dalle mediocrità e dalle vanità.
Riflettiamo sulla relazione tra l’ascesi quaresimale e l’esperienza sinodale, sottolineando due aspetti:
1. Lasciarsi condurre da Gesù in disparte
I discepoli hanno bisogno di vedere la meta della Pasqua e Gesù la anticipa per loro sul monte. Sono quegli stessi discepoli che vedranno il maestro abbattuto nell’Orto degli ulivi, che dovranno ricordare la gloria luminosa divina, rifulsa in Lui. Ma non c’è visione e comprensione del mistero di salvezza senza che il Signore ci conduca: non lo programmiamo noi, non lo creiamo noi artificiosamente, lo possiamo solo accogliere dalla benevolenza del Signore che dispone per noi i suoi tempi e i suoi luoghi di manifestazione. Prima ancora di arrivare a identificare con il papa questi tempi e luoghi di esperienza del Signore, consideriamo che il Signore ci conduce in disparte e in alto.
La visione delle cose ci appare nel momento in cui ci allontaniamo da esse per valutarle meglio. Il deserto dell’esodo si può leggere anche come una presa di distanza dall’Egitto per poter cogliere meglio la terra promessa. Sappiamo dalla Scrittura la difficoltà della liberazione dall’Egitto: dice il proverbio che “in una notte Dio liberò Israele dal cuore dell’Egitto e non bastarono 40 anni per liberare l’Egitto dal cuore di Israele!”. La disciplina quaresimale ci incoraggia ad addentrarci nel deserto per sentire meno la pressione delle cose e poter valutare meglio il dono che il Signore ci fa.
2. Salire con fatica
Ma dobbiamo anche salire, cambiare prospettiva, perché vedere le cose dall’alto ci permette di coglierne la reale portata e di equilibrare, ridimensionare ciò che ci sembrerebbe altrimenti così preponderante. Se giriamo per le vie del centro di Bologna possiamo rimanere stupiti e incantati da un bel palazzo, da una bella chiesa, che ci sembrano molto rilevanti. Ma se siamo rapiti in alto e con un drone vediamo la città salendo da quello stesso punto, ecco che ciò che ci sembrava così rilevante sembra sparire, appaiono nuove cose che non vedevamo. Per esempio vedendo la mole imponente di San Petronio capiamo che le proporzioni della città vanno ridisegnate rispetto alla nostra percezione che dà giudizi sempre così assolutizzanti! Gesù allora ci chiama in disparte e in alto per relativizzare ed equilibrare la nostra percezione ed avere così spazio per accogliere la sorprendente bellezza del suo dono: la vita divina.
Finché i nostri occhi sono puntati su di noi, sulle nostre paure e sui nostri obiettivi, e non sono rivolti al Signore, ci sfuggirà la sua luce e soprattutto la rilevanza che ha per noi la partecipazione alla sua vita di Figlio di Dio, che è in realtà la nostra speranza e bellezza.
Questo vale anche per il nostro cammino sinodale. C’è una bellezza sfolgorante della Chiesa, che ci sfugge finché noi siamo concentrati sulle nostre esperienze di vita ecclesiale e le assolutizziamo.
Facciamo bene anche a prenderne le distanze per qualche tempo e a guardarle dall’alto per capire quello che stiamo facendo dentro il grande cantiere ecclesiale. Ma ci fa bene soprattutto puntare gli occhi verso ciò che il Signore ci propone di essere per costruire una città dove abitare insieme e con Lui, luogo di bellezza e di comunione di vita.
È il luogo che Luca ci ha consegnato per sempre negli Atti degli Apostoli, descrivendoci quella prima e originaria comunità cristiana alla quale continuamente guardare per desiderarla con tutto il cuore. È il luogo dove il Signore risorto è presente e compie l’evangelizzazione; il luogo dove i fratelli vivono insieme e nessuno si sente escluso; dove non ci si prende gioco degli altri; dove la fede è vivace e muove i passi per portare il Vangelo verso i fratelli; dove i problemi che sorgono si risolvono con l’aiuto dello Spirito Santo e i carismi si compongono nel servizio reciproco. Finché noi guardiamo al nostro dettaglio, meschino il più delle volte, carico di risentimento per il nostro esercizio di potere che è stato o meno riconosciuto dagli altri, non contempleremo la bellezza della Chiesa e non la desidereremo mai.
CAMMINARE INSIEME
Il papa richiama l’esperienza condivisa dei tre discepoli e legge in questa seppur piccola esperienza comunitaria un tratto essenziale per il nostro cammino spirituale.
Nel “ritiro” sul monte Tabor, Gesù porta con sé tre discepoli, scelti per essere testimoni di un avvenimento unico. Vuole che quella esperienza di grazia non sia solitaria, ma condivisa, come lo è, del resto, tutta la nostra vita di fede.
I tre non sono i dodici. Sono quei tre che Gesù chiama in alcuni dei momenti più significativi della sua esperienza messianica: la risurrezione della figlia di Giairo, la Trasfigurazione e la preghiera nell’Orto degli ulivi. Sono tra i primi discepoli chiamati alla sequela del Maestro, ma questi elementi mentre li rendono distinti rispetto al resto dei discepoli, li rendono anche al servizio dei fratelli, carichi di un’esperienza di fede “per” loro e non “a dispetto” loro. Il mistero della salvezza viene offerto come dono e responsabilità nella comunione e non nella divisione. In analogia con le risorse e le ricchezze o con i carismi, si ha il dono di qualche risorsa o di qualche manifestazione dello Spirito non per se stessi, ma sempre per poter beneficare gli altri e così offrire una manifestazione più coerente del Regno dei cieli.
Paolo in questo senso ha delle parole molto esplicite e anche molto dure, davanti a coloro che vivono come privilegio la loro personale esperienza di fede: «Chi dunque ti dà questo privilegio? Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?» (1 Cor 4,7).
Pietro, memore della visione sul monte Tabor, la ricorderà sempre ai fedeli, mettendo la sua esperienza apostolica a servizio di tutti loro, preoccupandosi anche che rimanga dopo la sua morte.
13Io credo giusto, finché vivo in questa tenda, di tenervi desti con le mie esortazioni, 14sapendo che presto dovrò lasciare questa mia tenda, come mi ha fatto intendere anche il Signore nostro Gesù Cristo. 15E procurerò che anche dopo la mia partenza voi abbiate a ricordarvi di queste cose.
16Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. 17Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: «Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento ». 18Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte (2Pt 2,13-18).
Pertanto la Chiesa nella sua vita spirituale come pure nel Sinodo compie un cammino comunitario condiviso. Questo non significa che tutti si debba fare la stessa cosa contemporaneamente, ma che si è gli uni per gli altri. Quante sono le esperienze della Chiesa che, pur con tutta la nostra buona volontà, non sono di massa! Il cammino di tutti è misterioso, conosciuto solo da Dio. Nessuno può permettersi di giudicare la fede degli altri, perché solo il Signore legge il cuore, ma sappiamo che coloro che ci sono e che si impegnano in questo cammino, non lo fanno per se stessi, per segnare la distanza dagli altri, ma per offrire agli altri la propria vita spirituale, la maturità e la ricchezza che il Signore ha offerto loro. Anche i nostri cantieri, nei quali non abbiamo la presunzione di essere bravi e compiutamente corrispondenti alla volontà del Signore, sono ciò che noi abbiamo saputo assumere per corrispondere alla volontà del Signore, nella certezza che stiamo costruendo “la casa di preghiera per tutti i popoli”. È un cammino per un noi più grande dei presenti, per quelli che oggi non ci sono, “quanti ne chiamerà il Signore nostro Dio” (At 2,39), e per noi insieme.
NOVITÀ E CONTINUITÀ
Il papa legge nella presenza di Mosè e di Elia un segno della novità e insieme della continuità di Cristo rispetto alla rivelazione veterotestamentaria.
Accanto a Gesù trasfigurato, appaiono Mosè ed Elia, che impersonano rispettivamente la Legge e i Profeti (cfr Mt 17,3).
La novità del Cristo è compimento dell’antica Alleanza e delle promesse; è inseparabile dalla storia di Dio con il suo popolo e ne rivela il senso profondo.
Gesù in dialogo con tutta intera la rivelazione, si specchia nella Legge e nei Profeti e allo stesso tempo si lascia da loro indicare come il Messia atteso. Il rapporto tra le Scritture di Israele e l’esperienza di fede della Chiesa passa attraverso il rapporto che Gesù stesso ha voluto mantenere con questo passato di rivelazione.
Matteo colloca il rapporto di Gesù con le Scritture nel solco del “compimento”: non abrogare/cambiare, non confermare/ripetere, ma portare a compimento.
17Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. 18In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. 19Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli.Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
20Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli (Mt 5,17-20).
Il compimento di Cristo significa una novità che è insieme radicalmente nuova eppure già contenuta in ciò che l’ha preceduta. Possiamo paragonarla al frutto di un albero: è una cosa completamente nuova, diversa rispetto all’albero eppure è coerente e conseguente alla maturità dell’albero stesso. Date un morso al ramo o al frutto, per capire la radicale novità e differenza, e allo stesso tempo provate a dire che il frutto non è generato da quel legno, conseguenza e continuità del legno stesso!
Così anche Cristo, il Verbo fatto carne, si presenta come novità della storia della salvezza e insieme come il frutto stesso di quella storia. La nostra vita spirituale cerca questa novità fruttuosa, gustosa e vitale che è Cristo stesso e non la può trovare se non là dove fiorisce la Tradizione, la continuità intelligente e matura dell’esperienza apostolica, giunta a noi di generazione in generazione. Pensare ad una novità come rottura del passato significa compiere un atto di superbia che ci separa da coloro che hanno visto il Signore e ne hanno dato testimonianza. Pensare alla ripresentazione della continuità come conferma polverosa dei secoli, significa imbalsamare un cadavere. C’è invece un frutto di salvezza che il Signore genera da radici profonde e che vuole essere sorpresa e nutrimento della condizione attuale.
Analogamente anche il nostro cammino sinodale si deve confrontare con l’esperienza delle generazioni che ci hanno preceduto e che oggi appare ormai infruttuosa. L’“immobilismo” di chi prende tempo non è affatto rispettoso del passato, anzi è la sua morte. D’altro canto il coraggio della novità non è nella “sperimentazione improvvisata”, nel prurito di novità per il gusto di fare una cosa nuova, perché si finisce per umiliare la pianta che affonda le sue radici nell’evento di Cristo e di non poter avere più da essa il frutto sperato. Eppure c’è un frutto nuovo per la nostra vita di Chiesa, per il quale lavorare e da ricercare sulla pianta ecclesiale, che il Signore si incarica di suscitare per il bene e la salvezza di tutti. C’è una sana continuità con il passato che ci permetterebbe oggi di fare scelte anche diverse da quelle delle generazioni precedenti, proprio per rimanere fedeli come loro al modello di vita ecclesiale che il Signore Gesù Cristo fa splendere di bellezza negli Atti degli Apostoli.
TRASFIGURAZIONE
La trasfigurazione come anticipo per accendere di desiderio i discepoli, è una prefigurazione dell’evento pasquale, di Cristo e nostro. Di Cristo per la sua risurrezione gloriosa che lo mostrerà unito al Padre, vivente e glorioso, seduto alla destra della potenza per esercitare autorità sul mondo intero. Nostro per quella trasformazione della nostra vita a somiglianza della sua, per condividere la sua vita divina e perché Cristo viva in noi.
Nella trasfigurazione di Cristo c’è allora la promessa della trasfigurazione dei discepoli e lo strumento di questo cambiamento, che ci fa somigliare all’uomo nuovo, è l’ascolto di lui, indicato dal cielo.
La voce dalla nube dice: «Ascoltatelo» (Mt 17,5). Dunque la prima indicazione è molto chiara: ascoltare Gesù. La Quaresima è tempo di grazia nella misura in cui ci mettiamo in ascolto di Lui che ci parla. E come ci parla?
Anzitutto nella Parola di Dio, che la Chiesa ci offre nella Liturgia: non lasciamola cadere nel vuoto; se non possiamo partecipare sempre alla Messa, leggiamo le Letture bibliche giorno per giorno, anche con l’aiuto di internet. Oltre che nelle Scritture, il Signore ci parla nei fratelli, soprattutto nei volti e nelle storie di coloro che hanno bisogno di aiuto.
Non c’è nessun cambiamento che non parta dall’ascolto dell’altro. Non di me stesso, dei miei lamenti e delle mie ambizioni. «Ma ti sei ascoltato? » viene da dire… «Bene, adesso smettila di ascoltarti!». La voce dal cielo rimanda i discepoli a quelle parole di Gesù che essi non avevano voluto capire: «Chi vuol venire dietro a me…» (Mt 16,24- 28).
Perché l’ascolto è così importante nella vita spirituale e non può essere sostituito da un’altra pratica? Perché, a differenza di ogni altra cosa che noi possiamo fare, l’ascolto non può essere mai un fattore meccanico, ma chiede sempre l’adesione della volontà. Si può sentire certamente qualcuno parlare, come a volte capita nelle nostre case dove ci piace tenere la TV accesa per vincere il silenzio e la solitudine, ma l’ascolto è un’altra cosa.
L’ascolto chiede intelligenza, attenzione, disponibilità, spazio affettivo… L’ascolto è un atto umano che non possiamo fare in maniera distaccata e ripetitiva: dobbiamo scegliere l’altro per poter ascoltare e in questa scelta noi diamo un privilegio all’altro e alla sua esistenza, un rilievo che lo rende prezioso. Dobbiamo anche ammettere che l’ascolto permette all’altro di manifestarsi, senza doversi vestire del nostro pregiudizio che ne altererebbe i lineamenti. Senza ascolto anche la nostra comunione eucaristica rischierebbe di essere inefficace, perché il gesto meccanico del mangiare, senza la purificazione dell’ascolto, è sequestrato dalla nostra precomprensione.
Ma il papa ci ricorda un ascolto di Cristo nel fratello, cogliendo così nell’ascolto del prossimo una voce del Signore. Senza alcuna ingenuità, sappiamo che è doveroso anche un discernimento, perché non tutto quello che esce dalla nostra bocca è “oro colato”, ma soprattutto perché quando l’uomo e la donna sono tribolati hanno una somiglianza con il Signore che permette alle loro parole di allinearsi molto a quelle del Salvatore. Offrire anche ai tribolati un ascolto autentico porta ad una crescita spirituale importante.
Il nostro cammino sinodale desidera realizzare questo ascolto. Il rinnovamento della Chiesa non è un processo di organizzazione strategica, ma un ascolto di ciò che lo Spirito del Risorto dice alle Chiese (Cfr. Ap 2-3). E non vogliamo perdere nessun messaggio del Signore risorto, sia che venga dalle Sacre Scritture sia dall’esperienza di vita e di fede di questa nostra umanità. Con il necessario discernimento, è però necessario poter offrire a tutti un’occasione di parola e a noi di ascolto, mettere in cantiere le trasformazioni necessarie. Ma soprattutto la prima e più importante trasformazione, ancor prima di ogni scelta organizzativa, sarà quella di essere cambiati proprio perché siamo diventati capaci di ascolto, come il Signore Gesù il quale ascolta la voce del Padre, che lo chiama a fare la sua volontà, e lo riconosce nell’appello alla realizzazione del suo Regno. La prima nostra trasfigurazione è diventare Ascoltatori della Parola, esercitandoci in questo nei luoghi e nei tempi in cui il Signore Gesù si comunica a noi (Liturgia, poveri).
IL RITORNO
L’esperienza del Tabor è un’esperienza straordinaria e… pericolosa! Come tutte le esperienze potenti e generative, anche questa corre il rischio di fissarci lì nel tempo e nello spazio e di impedirci di riaggregarci ai nostri fratelli. Dalla soglia dell’evento divino nel quale ci ha parlato il cielo, noi dobbiamo recedere e tornare a ricomporre la comunità dalla quale ci siamo per un breve momento dovuti isolare. L’evento religioso straordinario ci seduce sempre e ci affascina portandoci alla ricerca di eventi nuovi, sempre più alti, e non facendoci vivere mai la quotidianità. Il fascino del Tabor, come della notte di Natale, è che viene una volta sola all’anno: non si può giustificare tutte le notti.
“Alzatevi e non temete”. Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo» (Mt 17,6-8). Ecco la seconda indicazione per questa Quaresima: non rifugiarsi in una religiosità fatta di eventi straordinari, di esperienze suggestive, per paura di affrontare la realtà con le sue fatiche quotidiane, le sue durezze e le sue contraddizioni.
Per quanto sia necessaria l’occasione di un momento di distacco e di salita per offrirsi meglio all’ascolto e all’esperienza del Signore, è anche vero che questo non ci può allontanare dalle fatiche del vivere quotidiano. Dobbiamo invece dire che la salita è orientata alla quotidianità e non viceversa.
L’esperienza straordinaria serve la quotidianità, la illumina. E quanto più quest’ultima è difficile e complicata, tanto più richiede un tempo e uno spazio di immersione nel mistero di Cristo che la renda più sensata ed efficace. Non è vero il contrario: l’ordinarietà del vivere non è una condizione dalla quale fuggire il più spesso possibile, oppure propedeutica a trovare risorse che mi permettano lo stacco. Potremmo dire che una è sovrana e l’altra ancillare: la quotidianità è sovrana, l’eccezionalità è a servizio della sovranità. Il punto di arrivo, il fine delle cose che genera scelte e orienta le risorse è, e rimane sempre, la quotidianità del vivere cristiano.
Nel nostro cammino sinodale c’è un importante parallelismo. Non mancano esperienze ecclesiali molto consolanti, occasioni di vera e piena esperienza della comunione che il Signore realizza tra di noi, dove ci sentiamo fratelli, ascoltati e capaci di ascolto. Anche il tempo del Sinodo può essere una di queste esperienze, per la sua connotazione di condivisione, di universalità, che lo rendono occasione di ascolto e di riflessione promettente, come solo un tempo di elaborazione e di cambiamento può essere… Però rimane un tempo transitorio che, una volta aperto, andrà anche a chiudersi, un tempo in cui non possiamo sprecare l’occasione di ascoltare il Signore e di fare il discernimento necessario. Non possiamo perdere l’occasione di avviare i cantieri di elaborazione della nostra vita ecclesiale futura… anche se questa non sarà la nostra condizione definitiva. Se speriamo di aver imparato l’ascolto, di trasfigurarci nel tempo del Sinodo a somiglianza di Cristo e del suo ascolto del Padre e dei fratelli, non è altro che per tornare alla nostra quotidianità, per vivere la dimensione ecclesiale che ci è propria con spirito di servizio e di comunione. Non è la nostra parrocchia o il nostro gruppo parrocchiale o la nostra chiesa domestica… a servizio del Sinodo, ma è il contrario: l’esperienza sinodale è a servizio della comunità parrocchiale, dell’esperienza ecclesiale che vivo nel mio gruppetto, nella mia casa, ecc. Questa prospettiva ci farà bene, quando dovremo anche noi alzarci, non temere e discendere.
Don Stefano Culiersi
Liturgista, Direttore Ufficio Liturgico
Diocesi di Bologna
Il Cantico