1. L’ESIGENZA DI CAMBIAMENTO INTEGRALE
«Proprio l’idea del cammino rimanda al paradigma biblico dell’esodo, che prevede sia il coraggio di abbandonare antiche logiche sbagliate, sia la capacità di affrontare le crisi nel deserto, sia il desiderio di alimentare la speranza di poter raggiungere la terra promessa»
(Messaggio CEI 16a giornata del creato).

Il messaggio della CEI per la 16a giornata del Creato ci ha proposto una analogia importante per la transizione che ci aspetta, quella che ci chiede di lasciare il modello in uso del rapporto con la casa comune, per assumere invece uno stile di vita rinnovato. Come per Israele, l’Egitto è ben noto, sia per la drammaticità delle sue dinamiche distruttive (è il luogo della schiavitù e della morte dei primogeniti), ma anche per l’abbondanza delle sue delizie (è il luogo dove la pentola della carne garantiva una rassicurante abbondanza). Il futuro invece è ignoto, è assicurato solo dalla presenza del Signore che guida, ma non offre nessuna immaginazione, soprattutto nel cammino che attraversa il deserto fatto di privazioni e fatiche.
Anche noi sappiamo cosa lasciamo: il nostro mondo di benessere nel quale un uso indiscriminato e rapace delle risorse ci ha garantito abbondanza fino allo sperpero, e insieme anche minacce e iniquità, che sfociano sempre più spesso nella violenza e nella guerra. Pur sapendo che dobbiamo cambiare stili di vita, abbiamo anche diverse sirene che vogliono sedurci, o verso un finto cambiamento che preservi il benessere e ci lasci avidi, ricchi e indifferenti agli altri, o prospettando decrescite e rinunce che accendono risentimenti e conflitti. Noi non riusciamo ad immaginare il futuro, però sappiamo che il cambiamento che ci aspetta è primariamente il nostro, quello del nostro cuore. La novità di vita è quella che ci fa vedere le cose e le persone con occhio rinnovato, alimentando scelte diverse.
Questa rigenerazione richiamata nel titolo non può ridursi ad un abito indossato su una persona identica a prima, perché una operazione così superficiale sarà insufficiente e frustrante. Il “cuore nuovo” è pertanto un profondo e convinto modo di essere davanti a Dio, ai fratelli e al mondo, che si rivestirà anche di atteggiamenti e stili nuovi, e che porta in sé la somiglianza di Cristo.
Ogni operazione spirituale come il rinnovamento del cuore non può essere solo una operazione razionale, ma deve essere anche una attenzione globale della persona, nella quale spirito, anima e corpo concorrono insieme.
Non può mancare nessuna di queste componenti della persona, se non si vuole evitare un naufragio, perché lasciare indietro qualcosa significa perdere l’unità della nostra persona e disperdere la nostra azione.
Gli antichi maestri di vita spirituale come i padri del deserto insegnavano, a partire da san Paolo, che coltivando i pensieri, i sentimenti e le azioni di Cristo, spirito, anima e corpo dell’uomo si risanano e si conformano all’immagine del Figlio di Dio, assumendo l’identità del nuovo Adamo, di quella creazione rinnovata che comincerà a relazionarsi secondo la volontà di Dio con il Creatore, il Creato e i fratelli.
Una azione pratica che non coltivi un pensiero coerente sulle cose, avrà forse rivestito l’uomo di un abito dignitoso, ma in maniera temporanea, senza speranza di radicare in profondità le scelte. E se poi mancano i sentimenti di fraternità e di compassione per gli altri, la pratica finirà per diventare uno strumento di presunzione e di disprezzo, fino alla violenza.
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Ma pure un vuoto sentimentalismo, che si riempia di effusioni e compassioni verso tutti, senza criterio e senza un fondamento ragionato, non riuscirà a distinguere il bene dal male, mettendo sullo stesso piano vittime e carnefici, incapaci di difendere il debole dal più forte che raggiunge maggiore visibilità e fama attraverso i media. Se poi i nostri sentimenti si fermano ad effusioni sterili che non portano ad azioni coerenti, diventiamo ridicoli (le famose lacrime di coccodrillo), per la commozione su cose che noi stessi continuiamo a provocare.

2. LE 4 TEMPORA
Per dare crescita, sviluppo e maturità alla nostra vita interiore, a quella somiglianza con Cristo dalla quale vogliamo far dipendere la nostra vita nuova, abbiamo bisogno di qualche esercizio globale della nostra vita: né solo spirituale o pratico o psichico. Per questo motivo vi propongo di valorizzare uno strumento di santificazione del tempo e del Creato che la Chiesa ha la possibilità di celebrare ad ogni passaggio di stagione: in latino le quattro tempora (i tempi, le stagioni).
Si tratta di una celebrazione eucaristica che si può fare mercoledì, venerdì o sabato mattina della III settimana di Avvento, della III di Quaresima, della settimana dopo la Trinità, della III settimana di Settembre. In essa si propone una preghiera dei fedeli specifica per il Creato in questa stagione, e la benedizione all’offertorio di alcuni frutti specifici per quel tempo, che si possano utilizzare per la liturgia eucaristica di quella messa e anche della domenica successiva: l’olio per la lampada (inverno), i fiori (primavera), le spighe (estate), l’uva (autunno).
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La prassi antica è stata rivista e conservata anche dalla riforma promossa dal Concilio Vaticano II, come elemento facoltativo, senza più il digiuno.
La premura per la custodia del Creato che da qualche anno si affaccia con maggiore consapevolezza anche nella Chiesa Cattolica, ci chiede di immaginare anche qualche forma di preghiera liturgica che ci impegni nel celebrare il mistero della salvezza che opera nella creazione e ci stimoli alla fedeltà a quel mandato di custodire con la casa comune anche la fraternità che Cristo ha realizzato tra tutti per il Padre suo. Però, prima di inventare qualcosa che non esiste, merita qualche attenzione la valorizzazione di quello che invece esiste e che attende solo di essere conosciuto e vissuto dai fedeli.

3. IL DIGIUNO E PREGHIERA
Il valore della celebrazione liturgica è innegabile, come insegna il Concilio, perché non è una nostra preghiera, ma è la nostra partecipazione alla preghiera e al sacrificio che Cristo compie al Padre. Celebrare la liturgia eucaristica nelle stagioni dell’anno significa per noi esaltare il Cristo come Signore di tutto il Creato, per il quale e nel quale tutto esiste. A nome della Creazione intera, nel suo svolgersi obbedendo alla volontà del suo Signore, noi eleviamo la lode e la benedizione a Dio, esercitando quel sacerdozio di Cristo che tutti viviamo per la nostra unità sacramentale con lui. Ma accanto a questo momento di espressione e alimento della nostra fede, è prezioso recuperare anche l’elemento del digiuno come strumento di purificazione e di santificazione voluto dal Signore, con il quale diamo completezza alla nostra partecipazione, coinvolgendo anche il fisico nella preghiera.
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Personalmente penso che il digiuno meriti qualche nostra attenzione in più, meriti di essere riproposto, secondo i criteri di opportunità della sapienza cristiana, soprattutto in ordine al cambiamento di stili di vita e alla sobrietà che vorremmo assumere nel nostro rapporto con il Creato.
Se posso addentrarmi dentro la questione religiosa del digiuno cristiano, noi scopriamo che la chiesa antica praticava il digiuno con intensità, sia nelle forme rituali settimanali in analogia e contrapposizione con la sinagoga il mercoledì e il venerdì (Didakè VIII,1), sia associato a speciali forme di preghiera (At 13,2), sia come forma di penitenza e di purificazione in preparazione a qualche evento (Didakè VII,4).
Del resto è Gesù stesso che pratica il digiuno e insegna a digiunare ai suoi discepoli, lui che veniva chiamato “mangione e beone” (Mt 11,19). In particolare c’è un detto del Maestro sul digiuno che lega l’astinenza dal cibo al rinnovamento della vita che in questo nostro contesto merita qualche attenzione.

Dal Vangelo secondo Marco (2,18-22)
18I discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno. Vennero da lui e gli dissero: «Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?». 19Gesù disse loro: «Possono forse digiunare gli invitati a nozze, quando lo sposo è con loro? Finché hanno lo sposo con loro, non possono digiunare. 20Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto: allora, in quel giorno, digiuneranno. 21Nessuno cuce un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo porta via qualcosa alla stoffa vecchia e lo strappo diventa peggiore. 22E nessuno versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino spaccherà gli otri, e si perdono vino e otri. Ma vino nuovo in otri nuovi!»

. Pur avendo digiunato 40 giorni nel deserto, Gesù non insegna ai discepoli una pratica di questo genere.
Insegna a digiunare, come ricorda Matteo 6,16-18, e a praticare un digiuno di nascosto, davanti a Dio e sviando le curiosità degli uomini.
C’è però una differenza importante con la pratica dei farisei e dei discepoli di altri maestri, come il Battista.
Questi praticano un digiuno di purificazione, di mortificazione, per un esercizio migliore del controllo su se stessi attraverso il controllo del proprio appetito. Ed è certamente vero che se impariamo a temperare i nostri appetiti, se ne giova la nostra libertà. Questo valore ascetico del digiuno merita attenzione, rispetto e una pratica da parte nostra, per quanti vogliono entrare nella lotta contro lo spirito del male e pertanto crescere nella libertà dalle proprie passioni…
Ma l’episodio evangelico parla di un altra forma di digiuno, quella del lutto, ovvero quella di far esprimere anche al proprio fisico la nostalgia, l’assenza, la privazione di qualcosa di importante. Il riferimento che usa Gesù è quello della vedovanza.
Sembra far dire al digiunatore: “Non mi nutro e patisco l’assenza del nutrimento fisico perché sto patendo l’assenza di altro nutrimento umano, morale, spirituale: quello del coniuge”.
I discepoli che sono con Gesù sono con lo sposo del suo popolo, e quindi nella festa, nel compimento. Ma non è sempre così: ci sono giorni in cui lo sposo è sottratto, e noi ci sentiamo perduti, incompleti. Nel tempo storico della nostra esistenza noi non siamo ancora alle nozze dell’Agnello (Ap 21), siamo invece nel tempo complesso in cui la salvezza di Cristo è compiuta nella speranza. Ci sono momenti nei quali “lo sposo è tolto”, e sono i tempi drammatici in cui, pur nella certezza di essere nello Spirito uniti al Signore, gli eventi contraddicono questa certezza. Sono i momenti di violenza, di guerra, di ingiustizia, sono la distruzione del nostro pianeta, la rovina del bene e il trionfo del male -per quanto parziale-, che fa gridare i giusti “fino a quando, Signore?”
Non mancano momenti in cui “lo sposo è tolto”, nei quali gridiamo al Signore la nostra preghiera, fiduciosa certo, ma a volte anche sconvolta e impaurita, invocando il Signore perché torni e ci unisca a sé.
Il digiuno fa partecipare anche il proprio fisico allo stato morale e spirituale nel quale ci troviamo, creando unità tra il fisico, l’anima e lo spirito, per raccogliere tutto noi stessi davanti a Dio. Cosa fa quindi l’organismo che digiuna? Semplicemente, senza tanti giri di parole, grida la sua fame, lamenta l’assenza di quello che gli serve partecipando di quello che manca all’anima e allo spirito: lo sposo. In questo modo il digiuno è espressione fisica della nostra preghiera, della richiesta che torni il Signore.

4. DIGIUNO E NOVITÀ DI VITA
Curiosamente, questa disputa sul digiuno tra Gesù e i discepoli dei farisei e del Battista è associata nei vangeli anche ad un celebre detto sulla novità di vita: quella del vestito e dell’otre, che rischiano di non essere all’altezza della situazione perché consumati e fragili.
È evidente che la pezza resistente e il vino vivace sono immagine di Cristo, parabola di una novità irriducibile del Maestro e del suo insegnamento rispetto all’abitudine lisa e debole dell’umanità che lo ascolta.
Invece di adattarsi alla debolezza umana, il Signore chiede ai suoi interlocutori di cambiare, esattamente come davanti all’esigenza religiosa del digiuno.
La mentalità “vecchia” che hanno i farisei e discepoli di Giovanni li fa digiunare perché è prescritto, perché, come si coglie dall’insieme delle dispute di Gesù, essi credono che la pratica di questa osservanza li renda migliori e più accetti a Dio. Praticano una mortificazione perché vedono nella riuscita di questa pratica un motivo di compiaciuta sicurezza, che renderà Dio benevolo nei loro confronti.
Questa mentalità collide con la presenza di Gesù e la sua presunzione di essere il Messia e quindi l’autore della Salvezza. Non sarà una pratica a portare salvezza, ma lui stesso, se gli si crede e lo si riconosce come tale. Il digiuno allora ci vuole, ma per dire che sentiamo la sua mancanza, che ci manca lui, il Salvatore, non per dimostrare di essere fedeli e quindi degni di stare alla presenza di Dio.
La novità cristiana, che invoca salvezza senza presumerla, è la gratitudine del dono invece della fierezza del merito; è la sorpresa immeritata invece della retribuzione pretesa. Questa novità passa attraverso un esercizio della propria vita completo, non solo dalla persuasione di una logica astratta che non cambia i miei sentimenti, oppure che non si traduce in una pratica materiale e fisica. Per questo è prezioso che sia legata ad un esercizio cristiano del digiuno (cosa c’è di più fisico?) nel quale il nostro corpo non si illude di conquistare Dio, ma grida la sua mancanza, il suo bisogno di Dio.
La mentalità vecchia, anche quando assume stili di vita di sobrietà, non crea fraternità, alimenta il giudizio, la divisione e la condanna, perché misura la bravura nella riuscita dell’esercizio di una pratica. Non porta il peso dell’altro, ma ne prende le distanze perché non corrisponde al modello pratico che abbiamo assunto. È l’atteggiamento che condanna, moralistico, che non ha inciso sul cuore e sulla visione del mondo.
La mentalità nuova invece, quando assume stili di vita di sobrietà, lo fa per amore di Dio e dei fratelli, avendo a cuore il bisogno di Dio e la fiducia nella sua salvezza, portando il peso dell’altro per la comune fraternità. È una novità che non condanna l’altro perché non riesce, ma accompagna, si coinvolge, incoraggia.
Noi sentiamo il bisogno di questo rinnovamento, quello del cuore nuovo, per rispondere alla chiamata del Signore a rinnovare anche i nostri stili di vita.

5. LA PROPOSTA
Se il digiuno ci permette di rinnovare il cuore, quando si aggiunge all’anima e allo spirito in un integrale orientamento a Dio di tutta la mia persona, vale la pena di inserire forme di fame e sete secondo l’insegnamento di Gesù, e dire al Signore la nostra nostalgia di lui, anche partecipando alla tribolazione dei nostri fratelli.
Nella crisi ecologica che stiamo vivendo, vogliamo cambiare il cuore mentre cambiamo anche i nostri stili di vita, per un rinnovamento dell’umanità e quindi anche del suo modo di vivere con i fratelli, davanti a Dio, nel Creato.
Vorrei proporre allora l’esercizio delle 4 tempora anche per noi, come preghiera personale, preghiera liturgica e anche digiuno, per annunciare il bisogno della salvezza di Dio con tutto noi stessi.
Il frutto che ci aspettiamo da questa pratica è quello di alimentare il cambiamento interiore che deve sostenere la revisione dei nostri stili di vita, invocando il Signore per la sua salvezza.

Don Stefano Culiersi

 

Costanza Bosi e Don Stefano Culiersi

É possibile ascoltare la riflessione integrale sulla pagina
Youtube Fraternità Francescana Frate Jacopa

Il Cantico