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Le Fonti Francescane pongono all’inizio del cammino di conversione di S. Francesco la sua domanda: “Cosa vuoi che io faccia, o Signore?” (FF 587)

In questa domanda si coglie subito l’impronta del cammino di fede francescano, che è orientato alla prassi.

Non solo. La domanda indica anche un incontro, un desiderio di agire insieme da parte di due persone, ma con ruoli ben distinti: uno è il padrone e l’altro è il servo.

Possiamo immaginare che S. Francesco conoscesse i doveri di un cristiano, anche se, secondo la biografia del Celano, aveva condotto una giovinezza piuttosto dissoluta. Ma in quella domanda c’era qualcosa di più della richiesta di poter seguire una prescrizione di legge. C’era l’urgenza di un rapporto personale che consentisse di agire in modo sapienziale, facendo della santità un programma di vita.

Dopo aver pregato intensamente, S. Francesco ricevette una risposta, “gli fu rivelato dal Signore come doveva comportarsi. E fu ripieno di tanto gaudio da non poterlo contenere” (FF 329).

Questo dialogo col Signore suggerisce di dare importanza, nell’azione cristiana, alla cooperazione tra l’io e il Tu per una comunione profonda che porti ad un sentire comune, alla comprensione del vero Amore.

Se invece agiamo da soli obbedendo al “tu devi”, viviamo una religiosità apparente propria di chi, nell’operare il bene, confida solo sulle proprie capacità di amare e spera di avere un compenso nell’essere ammirati dagli uomini. Si pensi a coloro che fanno l’elemosina, pregano, digiunano per “essere lodati dagli uomini” (Mt 6,1-18).

E di coloro che ubbidiscono al dovere per il dovere, ma non cercano la santità del loro operare, Gesù dice: “hanno già ricevuto la loro ricompensa” (Mt 6,2.5.16). È come dire che Dio non li ricompenserà. Non sono le opere della legge a renderci giusti (cfr. Rm 3,20), ma abbiamo bisogno di essere giustificati, di essere trasformati, di sanare la nostra affettività. E il primo passo per intraprendere la strada della purificazione del cuore è quello di rendersi conto della straordinaria inclinazione della natura umana verso il male.

Nella parabola del fariseo e del pubblicano quest’ultimo rappresenta l’uomo che, ponendosi davanti a Dio come fece S. Francesco, è ben consapevole di questa inclinazione, poiché si sente solo peccatore, mentre il fariseo rivendica una ricompensa per aver ubbidito alla legge.

Nel Testamento il Santo di Assisi pone in primo piano la consapevolezza di essere peccatore e la necessità di fare penitenza, ma non per punire se stesso, bensì per trasformare il suo cuore lasciandosi condurre dal Signore: “Il Signore concesse a me, frate Francesco, d’incominciare così a fare penitenza, poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di anima e di corpo” (FF 110).

La santità è il programma di vita di S. Francesco, che egli attua rinnegando se stesso nella penitenza, operando santamente, cioè come avrebbe fatto Cristo che ci ha lasciato “l’esempio perché ne seguiamo le orme” (FF 184).

In un cammino esperienziale di comunione con Cristo S. Francesco trasforma tutta la sua persona. Non solo il suo spirito diviene simile allo spirito di Cristo, ma si trasforma anche la sensibilità del suo corpo: infatti S. Francesco prova “dolcezza” invece dell’amarezza sperimentata prima di iniziare il suo cammino di penitenza.

“La vista dei lebbrosi, infatti, come egli attesta, gli era prima così insopportabile, che non appena scorgeva a due miglia di distanza i loro ricoveri, si turava il naso con le mani. Ma ecco quanto avvenne: nel tempo in cui aveva già cominciato, per grazia e virtù dell’Altissimo, ad avere pensieri santi e salutari, mentre viveva ancora nel mondo, un giorno gli si parò innanzi un lebbroso: fece violenza a se stesso, gli si avvicinò e lo baciò” (FF 348).

S. Francesco non riesce nemmeno ad avvicinarsi al lebbroso per ubbidire ad un comando con la sua sola volontà, ma si avvicina “per grazia e virtù dell’Altissimo… come vero amante dell’umiltà perfetta” (FF 348), in comunione con lo spirito di Cristo. Nell’agire penitenziale rinnega se stesso e si trasforma fino ad essere simile a Cristo, ad avere gli stessi sentimenti e così essere veramente suo testimone che non pretende di avere una ricompensa immediata alle sue buone azioni, anzi le restituisce a Dio e vive in uno stato di letizia per ciò che ha ricevuto.

Così può dire ai suoi frati di fare altrettanto: “Lo spirito del Signore… vuole che la carne sia mortificata e disprezzata, vile e abbietta, e ricerca l’umiltà e la pazienza e la pura e semplice e vera pace dello spirito; e sempre desidera soprattutto il divino timore e la divina sapienza e il divino amore del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. E restituiamo al Signore Dio altissimo e sommo tutti i beni e riconosciamo che tutti i beni sono suoi e di tutti rendiamogli grazie, perché procedono tutti da Lui. E lo stesso altissimo e sommo, solo vero Dio abbia, e gli siano resi ed Egli stesso riceva tutti gli onori e la reverenza, tutte le lodi e tutte le benedizioni, ogni rendimento di grazia e ogni gloria, poiché suo è ogni bene ed Egli solo è buono.” (FF 48).

Graziella Baldo