Il mito di Tantalo condannato al supplizio di non potere né mangiare né bere, nonostante fosse immerso nell’acqua con frutti che pendevano sul suo capo, perché a ogni suo tentativo le acque si ritiravano e i frutti gli sfuggivano, è il simbolo della situazione esistenziale dell’uomo che cerca sempre la pienezza di vita, la totalità, ma deve subire lo scacco di un continuo fallimento. Tantalo è il simbolo del linguaggio umano quando crede di poter bastare a se stesso puntando solo sulle sue forze e capacità, mentre deve cedere all’evidenza del fatto che da solo non è capace di produrre senso, di dire la totalità, di dire Dio.
S. Paolo quando dice: “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21) e: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20), in un certo senso ci dice che nell’atto di fede accettiamo la morte della nostra espressività ovvero rinunciamo alla pretesa col nostro linguaggio di dire la totalità, di essere Dio.
Ma questo significa che non possiamo parlare di Dio?
L’ateismo semantico delle Scuole Neopositiviste afferma che è insensato parlare di Dio, perché gli atei semantici accettano solo il linguaggio scientifico relativo al mondo empirico, rispondente ai criteri della verificabilità e della falsificabilità. Pur riconoscendo i limiti dell’ambito di interesse di questa Scuola di pensiero che non esula dal mondo empirico, il suo merito è l’aver avviato una riflessione sulla possibilità di parlare di Dio con il linguaggio umano. Come può l’uomo che è limitato, finito, parziale nominare Dio che è la totalità, la pienezza, l’infinito? Non si corre il rischio di dare a se stessi il nome di Dio?
S. Francesco nel “Cantico delle creature” mette in guardia dal pericolo di parlare di Dio attribuendogli i nostri pensieri e sentimenti, quando dice: “Et nullu homo ène dignu te mentovare”.
Ma non per questo egli rinuncia a parlare di Dio.Al contrario alla fine della sua vita, giunto al culmine del suo itinerario spirituale, esplode in questa lode al Creatore in cui parla mirabilmente di Lui grazie al suo linguaggio che non è univoco come il linguaggio scientifico; non è sentimentale e romantico per esaltare la propria soggettività ed emozionalità. Il suo linguaggio riesce a parlare di Dio perché è simbolico di Dio, restando umano. Egli non pretende di trascendere la sua umanità, ma fa trasparire il Creatore nelle sue parole accettando la morte della sua espressività, sull’esempio di S. Paolo.
Nell’atto di fede cede all’Altro la sua realtà perché sa che egli non potrà mai essere l’infinito, la totalità. Al centro c’è l’Altro di cui egli è simbolo, non ci sono i suoi pensieri ed interessi. Dio non è simbolo dell’uomo, ma l’uomo si vede suo simbolo, sua immagine e similitudine (cf Gen 1,26). Nell’atto di fede non c’è altra consistenza che questa: essere rimando al Creatore.
L’atto di fede è uno svuotamento totale di sé, è morire a se stessi, ma per essere riempiti e arricchiti della voce di chi parla e che noi accogliamo nel silenzio di noi stessi.
L’uomo di fede non è un frustrato, un annichilito, ma al contrario è ricco della presenza in lui dello Spirito divino.
Nel “Cantico delle creature” il linguaggio di S. Francesco è simbolico dell’Altro, perché egli parla dell’Altro parlando di altro. Nel “Cantico delle creature” Cristo non è nemmeno nominato, ma nonostante ciò si parla solo di Lui, vedendolo riflesso nelle creature che Egli ha fatto. Egli è simboleggiato dal sole signore e fratello, caratterizzato da aggettivi pieni di forza e di vigore: “et ellu è bello e radiante cum grande splendore”.
Esso non è l’unico sole immaginabile. Per esempio in tedesco il nome del sole è femminile. Quindi è immagine della madre e non del padre. Inoltre il sole del “Cantico delle creature” non è il sole appagante il nostro desiderio di bellezza intriso di caducità e di nostalgia, come il sole al tramonto, presagio della notte inquietante che avanza all’orizzonte suscitando nostalgia di lui ancor prima della sua scomparsa.
Il sole di S. Francesco non è nello scorrere del tempo, in continuo divenire, nascere e morire, sorgere e tramontare, ma «immobilizza il fluire del tempo, e si fa simbolo dell’istante eterno: “De Te, Altissimo porta significazione”. Non è simbolo dell’Altissimo che sovrasta e schiaccia, come un destino ineluttabile per l’uomo, ma è simbolo del Tu Altissimo, Onnipotente e Buono» (C. Bigi, Il Cantico delle creature di Francesco d’Assisi, Porziuncola pp. 25-26). Allo stesso modo la luce della luna “non cresce e non cala nelle sue fasi, le stelle non sono mappe di costellazioni” (ibidem, p. 38). La luce è cantata “in se stessa, nel suo permanere e nella sua pienezza” (ibidem). La luna non è muta e silenziosa testimone delle disgrazie umane che essa osserva con un ineluttabile fatalismo ed estraneità, come la luna leopardiana del “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Il vento non è la bufera travolgente, ma è simbolo dello Spirito divino che tutto rinnova e feconda al suo passaggio. È l’“aere” che fa respirare a pieni polmoni la purezza del soffio vitale dello Spirito e porta a sollevare il nostro sguardo verso cieli tersi e trasparenti, ben diversi dall’atmosfera plumbea e soffocata dallo smog delle strade intasate dal traffico nelle metropoli.
L’acqua non è quella delle inondazioni che allagano i centri abitati. Non è l’acqua sporca e mefitica delle aree industriali; non è nemmeno l’acqua delle cascate che scende impetuosa e fa paura, ma è l’acqua “umile” che discende penetrando in tutte le ferite del terreno beneficandole e sanandole per riportare la vita dove essa si era inaridita. Essa è simbolo del dono che Cristo ci ha fatto della sua vita, incarnandosi per la nostra salvezza. È l’acqua del Battesimo che salva.
Il fuoco non è quello della passione che fa ardere i cuori portandoli alla rovina, ma è il fuoco “bello et iocundo” simbolo della famiglia, della festa gioiosa, dell’amore condiviso che ravviva lo stare insieme tra fratelli in spirito di letizia. È il fuoco “robustoso et forte” dell’amore divino che trasforma il cuore dell’uomo e lo anima conferendogli un’operosità alacre che non si ferma neanche di fronte agli eventi più devastanti, perché il cuore trasformato confida di non essere mai abbandonato da quel fuoco divino che illumina la notte della morte e del peccato.
La terra rimanda alla maternità del Creatore che ha cura dell’uomo e, come la terra, “ne sustenta et governa”. La terra non è una cosa inerte da sfruttare fino alla sua ultima risorsa, ma è da rispettare e onorare come si onora il padre e la madre, altrimenti il discredito in cui sono stati fatti ricadere il padre e la madre, ricadrà su chi lo compie.
Nel “Cantico delle creature” S. Francesco non si atteggia a padrone della terra, ma si considera suo figlio e fratello. Riconosce di dipendere da essa così come da tutte le altre creature in cui coglie l’impronta di Dio.
Il linguaggio del Cantico è simbolico dell’Altissimo, perché il Creatore non è distante ed estraneo alla vita delle creature, ma è strettamente congiunto con esse. La creatura è “la ierofania del Creatore” che si rivela in esse, non è semplicemente l’effetto di una causa esterna. S. Francesco parla della creatura, non di Dio. Così facendo, grazie all’intima comunione col Cristo, per cui non è più lui che vive, ma Cristo vive in lui, comunica la presenza del Creatore riflessa nella creatura. Senza questa intima unione con Cristo il linguaggio non potrebbe essere simbolico dell’Altro, ma resterebbe chiuso nello spessore dell’umano senza possibilità di aprirsi all’infinito.
Il linguaggio umano senza la luce di Cristo è destinato a vivere lo scacco di Tantalo proteso verso la pienezza, ma destinato a vivere solo di rinuncia. Invece il cristiano rinuncia a vivere di sé, ponendosi al centro dei suoi interessi, per farsi ravvivare dalla presenza rigenerante di Cristo in vista della risurrezione.

Lucia Baldo