V CONVEGNO ECCLESIALE NAZIONALE
Firenze 9-13 novembre 2015
Giulio Michelini ofm
Il testo isaiano proposto questa mattina alla nostra attenzione orante è tra le pagine più commentate e controverse di tutto l’Antico Testamento, e viene tratto da quello che è comunemente definito il Quarto canto del Servo del Signore, uno, cioè, dei carmi dedicati proprio a questa figura, e che sono stati probabilmente composti dopo l’esilio di Israele a Babilonia.
Ma di chi si stiamo parlando? Chi è colui che il profeta Isaia chiama “il mio servo”? È la stessa domanda che quel funzionario etiope della regina Candace, amministratore dei suoi tesori, di ritorno da un viaggio fatto a Gerusalemme, rivolse a Filippo: «Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?» (At 8,34). Chi dunque possiamo riconoscere in quel volto? E in quale modo questa Parola può illuminarci ancora oggi?
La storia dell’identificazione di questo “Servo” è ricca e interessante, e si polarizza intorno a due figure: una, individuale, che di volta in volta è stata vista in personaggi come Mosè, o Giobbe, Geremia, lo stesso Isaia, come si è appena visto (è l’ipotesi fatta dal funzionario etiope); per i cristiani di oggi – abituati oramai ad ascoltare la lettura di Isaia nel lezionario del venerdì santo – come già per i primi cristiani, si parla di Gesù. L’altra identificazione vede invece il Servo, in modo corporativo, nel popolo ebraico, nell’Israele storico, «messo a morte in esilio, riabilitato con il ritorno in patria e riconosciuto innocente dai popoli»; quest’ultima è l’interpretazione che prevale per l’ebraismo…
Ma oltre a concentrarci sulla domanda “di chi stiamo parlando?”, possiamo sottolineare il modo in cui Dio agisce in quella figura, che è, per dirlo col titolo di un libro sul vangelo di Marco, quello dell’impotenza che salva. Per comprendere meglio la logica di questo processo, ci soffermiamo sui singoli passaggi del nostro testo.
1) Anzitutto, ciò che viene detto è talmente nuovo, contro la logica del modo comune di vedere le cose, che risulta difficile da credere: al v. 53,1 ci si domanda «chi avrebbe creduto?» a questo messaggio, che descrive «un fatto mai raccontato» prima (52,15)?
2) Un secondo passo, che si trova al centro del canto del Servo, è quello che descrive quell’uomo nella sua familiarità con la sofferenza e il dolore: «uomo – anch’egli, ma – dei dolori», che è stato «disprezzato ed evitato dagli uomini» (53,3). Non si specifica meglio di quale sofferenza si parli, perché in fondo, dentro questo breve tratteggio, c’è spazio per ogni sofferenza umana. Un commentatore scrive che, «comunque sia, se si parla di “nostri” dolori, di “nostre” malattie, è difficile che noi non li abbiamo provati». Quei dolori sono vissuti anche da noi, e quell’uomo ha vissuto anche i nostri dolori.
3) È stato scritto a proposito del vangelo di Marco che poiché la croce è – soprattutto per questo vangelo, ma anche per altre pagine del Nuovo Testamento – il centro del suo messaggio, «allora la bella notizia evangelica consiste proprio nella croce. La croce diventa “vangelo”», perché «nella croce del Figlio dell’uomo vengono rivelati l’identità di Dio e il senso della fede dei discepoli di ogni tempo». Per questa ragione la sofferenza del Servo, come quella di Gesù-Servo, ci obbliga a cambiare teologia, ci porta a «mettere in discussione le immagini usuali [di Dio, come] quelle del Dio potente e fustigatore dei malvagi […]. La vera e unica immagine di Dio è l’uomo (Gen 1,26-27) e, per i credenti in Cristo, l’uomo crocifisso (Mc 15,24ss)». I dolori del Servo ci insegnano che Dio non è venuto a liberarci dalle prove, ma ad abitarle, a essere presente in ogni prova di ogni figlio dell’uomo, e la Sua immagine divina non perde grandezza se si riflette anche in un uomo sofferente. Si tratta proprio di una impotenza che salva.
4) Il terzo momento logico di questi passaggi dice che la sofferenza e la morte non sono l’ultima parola. Si tratta di uno snodo fondamentale, perché senza di esso nessuna sofferenza ha senso. È l’esito inaspettato e positivo dell’intera vicenda, di cui il profeta parla in apertura del Canto: «Ecco, il mio Servo avrà successo» (52,13). L’esito di questa logica, il successo, però non deve mai essere staccato dai primi due passaggi. L’onore di cui si parla, l’esaltazione, l’innalzamento, infatti (terzo passo), vengono tutti misteriosamente dalla sofferenza (secondo passaggio), e non si può cessare di stupirsi di ciò (primo passo).
5) Infine, l’ultimo movimento logico della nostra pagina è quello che desta ancora una volta sorpresa: quella sofferenza non è stata sprecata. La salvezza che viene da questa prova porta un bene per tutti: non solo per l’Israele che canta questo Carme, ma anche per le nazioni e i re che di cui si parla al v. 52,15. Si tratta poi di un’occasione di conversione anche per coloro che hanno così crudelmente umiliato quel Servo: anche se non è chiaro come questa sofferenza sia stata inflitta, il testo ebraico al v. 53,5 dice che egli «è stato trafitto – “min”, cioè – dalle nostre colpe, schiacciato dalle nostre iniquità»: ancora una volta, ci siamo dentro tutti, ma tutti siamo stati redenti dalla sofferenza del Servo.
Si può allora parlare di una struttura di salvezza, che è in grado, per la potenza di Dio, di dare scacco e vincere ogni altra struttura, anche la più radicata, di male e di peccato. Come nel Magnificat, «Dio ha spiegato la potenza del suo braccio… ha rovesciato i potenti dai troni», e «ha soccorso Israele, suo servo» (cfr. Lc 1,51.54)…
(Per la lettura integrale della Meditazione visita il sito www.firenze2015.it)