Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Proseguiamo la nostra catechesi sul tema della preghiera. Il libro della Genesi, attraverso le vicende di uomini e donne di epoche lontane, ci racconta storie in cui noi possiamo rispecchiare la nostra vita. Nel ciclo dei patriarchi, troviamo anche quella di un uomo che aveva fatto della scaltrezza la sua dote migliore: Giacobbe. Il racconto biblico ci parla del difficile rapporto che Giacobbe aveva con suo fratello Esaù. Fin da piccoli, tra loro c’è rivalità, e non sarà mai superata in seguito. Giacobbe è il secondogenito – erano gemelli -, ma con l’inganno riesce a carpire al padre Isacco la benedizione e il dono della primogenitura (cfr Gen 25,19-34). È solo la prima di una lunga serie di astuzie di cui questo uomo spregiudicato è capace. Anche il nome “Giacobbe” significa qualcuno che ha scaltrezza nel muoversi.

Costretto a fuggire lontano dal fratello, nella sua vita pare riuscire in ogni impresa. È abile negli affari: si arricchisce molto, diventando proprietario di un gregge enorme. Con tenacia e pazienza riesce a sposare la più bella delle figlie di Labano, di cui era veramente innamorato. Giacobbe – diremmo con linguaggio moderno – è un uomo che “si è fatto da solo”, con l’ingegno, la scaltrezza, riesce a conquistare tutto ciò che desidera. Ma gli manca qualcosa. Gli manca il rapporto vivo con le proprie radici.

E un giorno sente il richiamo di casa, della sua antica patria, dove ancora viveva Esaù, il fratello con cui sempre era stato in pessimi rapporti. Giacobbe parte e compie un lungo viaggio con una carovana numerosa di persone e animali, finché arriva all’ultima tappa, al torrente Jabbok. Qui il libro della Genesi ci offre una pagina memorabile (cfr 32,23-33). Racconta che il patriarca, dopo aver fatto attraversare il torrente a tutta la sua gente e tutto il bestiame – che era tanto -, rimane da solo sulla sponda straniera. E pensa: che cosa lo attende per l’indomani? Che atteggiamento assumerà suo fratello Esaù, al quale aveva rubato la primogenitura? La mente di Giacobbe è un turbinio di pensieri… E, mentre si fa buio, all’improvviso uno sconosciuto lo afferra e comincia a lottare con lui. Il Catechismo spiega: «La tradizione spirituale della Chiesa ha visto in questo racconto il simbolo della preghiera come combattimento della fede e vittoria della perseveranza» (CCC, 2573).

Giacobbe lottò per tutta la notte, senza mai lasciare la presa del suo avversario. Alla fine viene vinto, colpito dal suo rivale al nervo sciatico, e da allora sarà zoppo per tutta la vita. Quel misterioso lottatore chiede il nome al patriarca e gli dice: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele. perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!» (v. 29). Come a dire: non sarai mai l’uomo che cammina così, ma dritto. Gli cambia il nome, gli cambia la vita, gli cambia l’atteggiamento; ti chiamerai Israele. Allora anche Giacobbe chiede all’altro: «Svelami il tuo nome». Quello non glielo rivela, ma in compenso lo benedice. E Giacobbe capisce di aver incontrato Dio «faccia a faccia» (cfr vv. 30-31).

Lottare con Dio: una metafora della preghiera. Altre volte Giacobbe si era mostrato capace di dialogare con Dio, di sentirlo come presenza amica e vicina. Ma in quella notte, attraverso una lotta che si protrae a lungo e che lo vede quasi soccombere, il patriarca esce cambiato. Cambio del nome, cambio del modo di vivere e cambio della personalità: esce cambiato. Per una volta non è più padrone della situazione – la sua scaltrezza non serve -, non è più l’uomo stratega e calcolatore; Dio lo riporta alla sua verità di mortale che trema e ha paura, perché Giacobbe nella lotta aveva paura. Per una volta Giacobbe non ha altro da presentare a Dio che la sua fragilità e la sua impotenza, anche i suoi peccati. Ed è questo Giacobbe a ricevere da Dio la benedizione, con la quale entra zoppicando nella terra promessa: vulnerabile, e vulnerato, ma con il cuore nuovo. Una volta ho sentito dire a un uomo anziano – buon uomo, buon cristiano, ma peccatore che aveva tanta fiducia in Dio – diceva: “Dio mi aiuterà; non mi lascerà da solo. Entrerò in paradiso, zoppicando, ma entrerò”. Giacobbe, prima era uno sicuro di sé, confidava nella propria scaltrezza. Era un uomo impermeabile alla grazia, refrattario alla misericordia; non conosceva cosa fosse la misericordia. “Qui sono io, comando io!”, non riteneva di avere bisogno di misericordia. Ma Dio ha salvato ciò che era perduto. Gli ha fatto capire che era limitato, che era un peccatore che aveva bisogno di misericordia e lo salvò.

Tutti quanti noi abbiamo un appuntamento nella notte con Dio, nella notte della nostra vita, nelle tante notti della nostra vita: momenti oscuri, momenti di peccati, momenti di disorientamento. Lì c’è un appuntamento con Dio, sempre. Egli ci sorprenderà nel momento in cui non ce lo aspettiamo, in cui ci troveremo a rimanere veramente da soli. In quella stessa notte, combattendo contro l’ignoto, prenderemo coscienza di essere solo poveri uomini – mi permetto di dire “poveracci” – ma, proprio allora, nel momento in cui ci sentiamo “poveracci”, non dovremo temere: perché in quel momento Dio ci darà un nome nuovo, che contiene il senso di tutta la nostra vita; ci cambierà il cuore e ci darà la benedizione riservata a chi si è lasciato cambiare da Lui. Questo è un bell’invito a lasciarci cambiare da Dio. Lui sa come farlo, perché conosce ognuno di noi. “Signore, Tu mi conosci”, può dirlo ognuno di noi. “Signore, Tu mi conosci. Cambiami”.