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Elisabetta d’Ungheria (1207-1231), nel suo cammino incessante per conformarsi a Cristo e farsi tutto a tutti, ha rafforzato l’azione missionaria della Chiesa, incarnando e diffondendo la spiritualità francescana come fermento di vita evangelica nelle comuni occupazioni del mondo, ponendo il principio della fraternità a fondamento del rapporto tra gli uomini. Pur nella sua breve vita, e come donna, ha vissuto da protagonista quella rivoluzione pacifica che il francescanesimo inaugura nella sua epoca in ordine allo stile di vita, alle relazioni familiari e interpersonali, alla riconciliazione tra le classi sociali, all’amministrazione dei beni, alla cura della “città”. Attraverso la sapienza dell’altissima povertà e la profezia della sua carità giunge fino a noi oggi per farci dono dei “pani” che porta in grembo, per tutti i poveri di pane, i poveri di affetti, i poveri di senso e di speranza.

Elisabetta è regina, ma di una regalità nuova che sa unire ciò che sembrerebbe opporsi radicalmente: è regina e sorella, regina e penitente, regina che non si appropria ma condivide, regina che si fa serva di tutti e in particolare degli ultimi, regina che depone la sua corona davanti all’unico vero re, il Signore Gesù, dicendo: “Come posso io portarla davanti a Colui che ha portato una corona di spine e l’ha portata per me!”.  Vive in pienezza il Vangelo della carità nel mondo, che diviene così terreno di rendimento di grazie, possibilità di restituzione a Dio nella edificazione del suo disegno di amore per ogni uomo. Elisabetta accoglie prontamente la pedagogia di Dio che si rivela in Cristo. Il suo impegnativo cammino di conversione è tutto orientato dall’ordine dell’amore di Cristo per risanare il proprio ordine di amore. In questo cammino Elisabetta sente come via privilegiata la povertà. Si sente come Francesco chiamata alla povertà dalla povertà di Cristo che “da ricco che era si è fatto povero per noi”.

Elisabetta come S. Francesco non disserta sulla povertà, la assume, perché in Cristo la povertà è rivelata come via di salvezza per tutta l’umanità. Per lei vivere il Vangelo è imitare gioiosamente Cristo povero e crocifisso, imitare la sua condiscendenza in quel “farsi poveri” per farsi prossimo, per farsi fratello.

Francesco chiama a vivere “senza nulla di proprio”, riconoscendo che ogni bene è proprietà di Dio e noi stessi siamo di Dio. Francesco porta in presenza con la sua vita povera e umile dove risiede la vera dignità dell’uomo, che non sta nella ricchezza, nel potere, nel successo, ma nell’essere fatti “a immagine e similitudine di Cristo”. Il peccato dell’uomo consiste in definitiva nel credersi Dio, artefici di se stessi. Vivere “senza nulla di proprio” significa vivere non ponendo se stessi al centro della propria vita, ma ponendo Dio al centro e il suo mistero di amore, che ci rende figli e fratelli. E lo sforzo costante di Francesco sarà quello di restituire tutto a Dio, di non trattenere per sé, condividendo con i fratelli, per riconoscere così in tutti la regalità di Dio, l’orma buona dell’Onnipotente Bon Signore.

Elisabetta declina tutto questo nella laicità, nella fedeltà più piena alla propria condizione, perché questa condizione è possibilità di rimando a Lui, è possibilità di far fruttificare il talento dell’amore di Dio nel mondo, terreno in cui seminare il bene e volgere il cuore dell’uomo alla misericordia di Dio.

Non si tratta tanto di dare qualcosa del proprio patrimonio, si tratta piuttosto di sentirsi in cammino sulle orme di Cristo, sorretti dalla forza del suo amore, per compromettersi in una restituzione perseverante che renda ragione della speranza che è in noi, poggiando non sulle false sicurezze della nostra sola volontà ma sull’azione di Dio.