p57339401-2[1]Elisabetta è regina, ma di una regalità tutta nuova che sa unire ciò che sembrerebbe opporsi radicalmente: è regina e sorella, regina e penitente, regina che non si appropria ma condivide, regina che si fa serva di tutti e in particolare degli ultimi, regina prostrata giorno e notte davanti all’unico vero re, il Signore Gesù. Regina che depone la sua corona dicendo: “Come posso io portarla davanti a Colui che ha portato una corona di spine e l’ha portata per me!”.
L’esemplarità di S. Elisabetta è stata decantata attraverso molteplici straordinari episodi della sua intensissima vita, che hanno messo in luce in modo preminente l’aspetto della carità, ma che troppe volte abbiamo considerato con superficialità come azioni di carità, come gesti di carità, senza cogliere la portata appassionante di una vita che in ogni momento, in ogni situazione, in ogni condizione, ha saputo farsi manifestazione della carità di Colui che per amore si è dato totalmente a noi.
Tutta la vita di Elisabetta è mossa da quell’amore, è in un operare instancabile perché quell’amore la trasformi “a sua immagine” e possa così usare a sua volta misericordia, espandere la misericordia di Dio nel mondo a favore di ogni uomo, per il quale Cristo è nato, è morto, è risorto. La sua vita è per noi una delle testimonianze più vive di quell’essere “fratelli e sorelle della penitenza” a cui ci chiama ancora oggi la Chiesa sulle orme di S. Francesco. Ricordiamo le parole della Lettera a tutti i Fedeli: “Tutti coloro che amano il Signore con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente, con tutte le loro forze e amano il prossimo come se stessi …..e fanno degni frutti di penitenza: quanto mai sono felici questi e queste facendo tali cose e preservando in esse …” (cfr FF 178).
Queste sono le parole che Elisabetta ha certamente sentito nella sua vita dai primi Frati giunti in Germania. Queste le parole che Lei incarna in maniera eccelsa, rendendo evidente nei fatti come la via della penitenza, della conversione, non sia qualcosa di lugubre, non si sostanzi essenzialmente di digiuni, macerazioni, cilizi (come sembrava sostanziarsi in quel tempo la penitenza), ma sia soprattutto e innanzitutto un programma di amore, di crescita nell’amore, in quell’amore che ci ha creati e redenti e che nello Spirito sostiene costantemente la nostra possibilità di amare.
È questa la intuizione evangelica di Francesco d’Assisi che Elisabetta abbraccia con gioia, con perseveranza, sentendola propria vocazione, avvertendola come proprio modo di essere nel mondo per ri-orientarlo a Dio, a quell’amore, a quella carità, a quella misericordia che solo può illuminare il mondo e rinnovare i rapporti tra gli uomini.
Questo è l’annuncio fraterno salvifico che lei sente di dover portare con tutta la sua vita, evocando nel cuore degli uomini quella forza d’amore che solo può ristorare, che solo può offrirgli pienezza di senso e dunque autentica felicità.