Meditazione di Don Stefano Culiersi- 2ª parte
Don Stefano Culiersi, nell’aprire a Bologna il cammino di formazione dell’anno della Fraternità Frate Jacopa “Seminare speranza nella città degli uomini”, a partire dalla Spes Salvi e dalla meditazione Lucana dei discepoli di Emmaus, ha offerto importanti elementi di riflessione sulla speranza, esperienza performativa, e sul rapporto “speranza e tribolazione” (cf 1° parte Meditazione in Il Cantico on line nov-dic 2017). La seconda parte della Meditazione, qui pubblicata, entra nel merito della speranza fondata sulla risurrezione di Cristo, consegnata a noi sempre e nuovamente nella celebrazione liturgica, evidenziando come la speranza sia una speranza che coinvolge la redenzione di Gerusalemme. “Alla nostra città noi siamo debitori della nostra speranza, come i discepoli di Emmaus si sentono debitori verso gli altri della Resurrezione di Cristo loro manifestata”.
4. La vita eterna.
Tornando al contenuto della speranza, noi dobbiamo riconoscere che al cuore di ogni desiderio c’è sempre un cercare la felicità, nient’altro. La vita eterna, la risurrezione, la vittoria sulla morte a cui fa riferimento Paolo rischia di essere un concetto vuoto di significato oggi come oggi. Cosa speriamo quando noi desideriamo che si compia la Pasqua, quando cerchiamo la vita eterna?
Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo. Continuare a vivere in eterno – senza fine – appare più una condanna che un dono. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile (9).
Per papa Benedetto XVI siamo davanti ad un paradosso: da un lato desideriamo allontanare la morte il più possibile, e dall’altro non vogliamo prolungare all’infinito la vita sulla terra. Anche i recenti fatti di cronaca di suicidi assistiti denunciano non il desiderio di morire, ma il fuggire una vita disumana, per la mancanza di relazioni, di aiuti e di impegno.
Ci sono dei momenti in cui percepiamo all’improvviso: sì, sarebbe propriamente questo – la «vita» vera – così essa dovrebbe essere. A confronto, ciò che nella quotidianità chiamiamo «vita», in verità non lo è. Agostino, nella sua ampia lettera sulla preghiera indirizzata a Proba, una vedova romana benestante e madre di tre consoli, scrisse una volta: In fondo vogliamo una sola cosa – «la vita beata», la vita che è semplicemente vita, semplicemente «felicità».
Non c’è, in fin dei conti, altro che chiediamo nella preghiera. Verso nient’altro ci siamo incamminati – di questo solo si tratta. Ma poi Agostino dice anche: guardando meglio, non sappiamo affatto che cosa in fondo desideriamo, che cosa vorremmo propriamente. Non conosciamo per nulla questa realtà; anche in quei momenti in cui pensiamo di toccarla non la raggiungiamo veramente. «Non sappiamo che cosa sia conveniente domandare», egli confessa con una parola di san Paolo (Rm 8,26). Ciò che sappiamo è solo che non è questo. Tuttavia, nel non sapere sappiamo che questa realtà deve esistere.
«C’è dunque in noi una, per così dire, dotta ignoranza » (docta ignorantia), egli scrive. Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa «vera vita»; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti (10).
Questa beatitudine che speriamo è contemplata nel Verbo della vita fatto carne, in Cristo Gesù. Per questo noi la speriamo, perché l’abbiamo già vista, la crediamo presente, e giudichiamo affidabile il Dio che la promette.
La nostra celebrazione liturgica ci insegna questo rapporto tra il presente il passato e il futuro, alimentando le speranze più belle della nostra vita.
Cristo è vivo, è risorto, ha compiuto le speranze di tutti. La vita beata che desideriamo è la sua vita consolata nell’abbraccio del Padre, piena di relazione e di affetto per i suoi amici, i discepoli che gli sono costati il sangue, centrale e determinante per l’esistenza del mondo intero.
Nella celebrazione, lo Spirito santo consegna ancora alla Chiesa la realtà creduta e amata del suo Signore Gesù Cristo, e mentre lei lo stringe a sé nei santi segni, essa rinnova la speranza di essere lei pure partecipe della stessa gloria, coerede con Cristo della stessa vita beata.
Certo che intorno a lei vede il mondo con le sue disperazioni, ma avendo davanti agli occhi il Mistero pasquale nella celebrazione, sente che partecipando alle sofferenze del Cristo si prepara a partecipare anche alla sua gloria.
Lo Spirito che anima i santi Misteri è la caparra attesa e sperata, il fondamento certo e resistente del suo agire, perché per raggiungere il compimento di ciò che ora possiede, coinvolge tutta se stessa.
5. … e la città?
La speranza alimentata da Luca è una speranza che coinvolge la redenzione di Gerusalemme. Alla nostra città noi siamo debitori della nostra speranza, come i discepoli di Emmaus si sentono debitori verso gli altri della Risurrezione di Cristo loro manifestata e per questo rientrano nella notte verso la città santa.
La dimensione escatologica, capace di affrontare le tribolazioni con speranza, muove il credente e lo attira a porre oggi dei segni che non sembrano coerenti con il sentire della città.
Le nostre città manifestano piuttosto i segni della disperazione, di un rassegnato cinismo che guarda con sospetto ogni cosa perché teme un inganno e amplifica ogni fallimento per radicarsi nella sua delusione. Accade così che alcune attenzioni, mosse dalla speranza cristiana, appaiono stonate, forse proprio fuori tempo, rispetto al ritmo con cui viaggia l’umanità. Un “fuori tempo” che è annuncio del futuro, più che nostalgia del passato.
La più urgente mi sembra quella dell’educazione. C’è un abbandono progressivo dell’educazione delle nuove generazioni, dietro un seducente invito a lasciare che ognuno decida di essere come vuole ciò che vuole. La maschera di una libertà da ogni condizionamento culturale nasconde piuttosto la sfiducia nella possibilità concreta di incamminare e sostenere il giovane al suo futuro. L’assenza di un progetto umano, cioè di una speranza da perseguire, si traduce nella impossibilità di fare scelte educative oggi. Parente stretta di questa sfiducia nei processi educativi è il gettare la spugna davanti ad una adolescenza e gioventù problematiche, irritanti, ingrate, che si guardano con rassegnato disprezzo perché… “non c’è niente da fare”.
Davanti a questa speranza fallita, la comunità cristiana continua ad educare, senza false illusioni, perché spera sinceramente che l’umanità piena e felice, quella che si riconosce nella umanità del Verbo incarnato, merita la nostra fatica e il nostro impegno.
Siccome abbiamo davanti la felicità di essere uomini come il Figlio di Dio, e la speranza di costruire una umanità come la sua, allora ci mettiamo all’opera, anche là dove tutti dicono che non vale la pena.
Un altro tratto di speranza che appare particolarmente provocatorio nelle nostre città incapaci di speranza, è quello legato al perdono. La paura genera mostri, non solo perché li si vede ovunque, ma proprio perché finisce per creare quelle emarginazioni che disumanizzano e che portano a comportamenti aberranti e temibili. E la paura di essere feriti per la nostra vulnerabilità ci costringe a diventare spietati, verso chi inganna e verso chi viene ingannato. Se poi qualcuno riesce a ferirci con la violenza o con l’astuzia, ci facciamo un punto di onore a ricostruire la nostra dignità violata proprio a partire dal rancore, perché crediamo che l’assenza di compassione sia un punto di forza.
Nella città spietata e rancorosa, il credente perdona, non perché sia ingenuo o stupido, non perché dimentichi o minimizzi, ma perché confida nel giudizio di Dio, in colui che farà giustizia. E se il giudice chiede di perdonare il fratello, di amare il nemico, di beneficare l’avversario, è perché ci invita a coltivare e ad operare la speranza di una fraternità che nemmeno il delitto e l’ingiustizia hanno annullato. Il credente, con fatica certamente, anela ad offrire il perdono, perché si fida del Signore e spera che quella fraternità oggi negata sia nelle mani di Dio e che lui la possa realizzare. Se non nel tempo, almeno nell’eternità, dove il giudizio di Dio sarà capace di ciò che il giudizio umano non immagina.
Da ultimo il culto dei defunti è un annuncio di speranza per una città che liquida i morti e li smaltisce, nei depositi (cimiteri), nella discarica (ossari), nell’inceneritore (cremazione).
Senza entrare nella difficoltà urbanistica della gestione cimiteriale, che ha provocato in tempi recenti una certa indulgenza e un cambiamento di prospettive verso pratiche che fino a qualche decennio fa erano considerate inappropriate se non addirittura eretiche, è crescente la sensazione della morte come una fine che non salva nulla della vita dell’altro. L’idea o il ricordo del defunto diventa una proprietà privata del dolente, che esprime questo possesso in una oscillazione tra il conservare nel cuore la sua memoria e l’attaccamento fisico ad ogni cosa del defunto, comprese le sue ceneri.
La speranza della vita eterna e della risurrezione porta il credente a trattare i propri defunti con attenzione diversa. Essi lasciano riposare nella morte i propri cari, consapevoli del disfacimento del corpo, ma anche nella speranza della risurrezione dell’ultimo giorno. I cimiteri (in greco: “dormitori”) sono luoghi in cui annunciamo questa speranza. Nella loro custodia e nella loro cura si annuncia il Vangelo di un ulteriore compimento per la vita umana, dove la tomba è domus secunda donec tertia.
Ma non solo la carne, anche ogni cosa della nostra vita è chiamata alla risurrezione, per cui si coltiva il ricordo degli eventi passati con i nostri cari, non per un possesso nostalgico ma perché ogni momento è reso vitalizzato dalla vita del Cristo. C’è un annuncio di speranza, di valore, di stima per la vita nel culto cristiano dei defunti, capace di valorizzare ogni cosa, perché nulla si perde e tutto si compie nella Pasqua di Cristo.
6. Conclusione
Vorrei concludere con due preghiere, prese dalla celebrazione eucaristica. La prima, più celebre, è di papa Gregorio Magno alla fine del VI secolo, in un’epoca di grandi disastri: epidemie, carestie, guerre, scismi, crisi politica e amministrativa dell’impero giustinianeo:
Liberaci, o Signore, da tutti i mali, concedi la
pace ai nostri giorni;
e con l’aiuto della tua misericordia, vivremo
sempre liberi dal peccato
e sicuri da ogni turbamento, nell’attesa che si
compia la beata speranza,
e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo.
Il Signore ci renda capaci di resistere fino al ritorno del Signore. L’orizzonte è quello della sua Parusia. C’è una beata speranza, una attesa felice del Signore che viene e che rasserena le paure e le lacrime di oggi.
Il secondo è il primo prefazio dei defunti, dove si annuncia il Mistero della Salvezza in termini di speranza di vita eterna pur davanti all’esperienza della morte.
In Cristo tuo Figlio, nostro salvatore,
rifulge a noi la speranza della beata risurrezione,
e se ci rattrista la certezza di dover morire,
ci consola la promessa dell’immortalità futura.
Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta,
ma trasformata;
e mentre si distrugge la dimora di questo esilio
terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo.
La speranza è allora fondata sulla risurrezione di Cristo, perché nella sua vittoria sulla morte c’è già anche la nostra vittoria sulla morte. Passiamo allora anche noi con Cristo attraverso la morte, ma non per rimanerne schiacciati. Si prepara come per Cristo una dimora eterna in un corpo glorificato, come è il suo corpo risorto.
Non siamo schiacciati dal pensiero della morte nemmeno ora che dobbiamo ancora morire, perché la speranza futura mi determina nel mio pensiero, nel mio agire, nel mio decidere. Essa mi chiama a sé e riempie di senso ogni cosa fin d’ora, dal momento che il Mistero pasquale di Cristo è celebrato e consegnato a me nella S. Messa.
9 SS 10.
10 SS 11.