Uscire da sé
L’Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium” chiede di fare attenzione alla “mondanità spirituale”(EG 93), che fa vivere il nostro rapporto con Dio alla maniera del mondo cercando la gloria umana al posto della gloria del Signore. Secondo il papa la mondanità spirituale “può alimentarsi specialmente in due modi profondamente connessi tra loro” (EG 94). Uno è lo gnosticismo “dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti. L’altro è il neopelagianesimo autoreferenziale e prometeico di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli a un certo stile cattolico proprio del passato” (EG 94).
In entrambi i casi la conoscenza di Dio sarebbe orgogliosamente il frutto di una conquista, di una scalata verso il cielo con la proprie forze: nello gnosticismo la salvezza viene da ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano illuminare, nel neopelagianesimo ci si salva senza la grazia autonomamente attraverso le proprie azioni. Gli aderenti ad entrambe queste due ideologie si potrebbero identificare coi falsi profeti di cui parla una parabola di Matteo (Mt 7, 21-27) in cui l’evangelista raccomanda di guardarsi da essi come dai lupi rapaci che operano iniquità pretendendo di profetare, di scacciare i demoni, di compiere prodigi nel nome di Dio e illudendosi di poter parlare di Dio senza conoscere il Figlio. Infatti Gesù non li riconosce come suoi discepoli e li respinge come operatori d’iniquità lontani dalla volontà del Padre.
Per non essere falsi profeti è opportuno seguire la strada della santità indicata dall’Esortazione Apostolica “Gaudete et Exultate”. In essa il papa dà grande rilievo al “discernimento orante” (GE 172) che richiede una “disposizione ad ascoltare” e che “non è un’autoanalisi presuntuosa, un’introspezione egoista, ma una vera uscita da noi stessi verso il mistero di Dio” (GE 175).
Conoscere in umiltà e povertà
Dio è amore. Egli può essere conosciuto solo da chi lo accoglie in umiltà e, consapevole di esserne abissalmente lontano, invoca l’apertura della mente alla docilità del cuore.
L’uomo umile è disposto a uscire da sé, cioè a cercare di liberarsi dei propri pregiudizi e a lasciarsi plasmare dalla Parola del Padre che “si manifesta con piacere agli umili” (GE 170).
L’uomo umile ha la consapevolezza che, per poter accogliere la manifestazione dell’amore di Dio attraverso Cristo, deve farsi povero svuotandosi della sua espressività che riduce Dio a un idolo e che non può usare altro se non antropomorfismi per parlare di Lui.
L’uomo umile e povero è l’uomo saggio della parabola sopra citata. Egli ascolta la Parola che si è incarnata per farci conoscere il Padre e la mette in pratica, costruendo così la sua casa sulla roccia. Quanto più è accogliente tanto più conosce l’Altro.
In questo modo la conoscenza di Dio non è mentale, ma esperienziale in quanto deriva dal vivere insieme con Cristo, dal renderlo partecipe delle nostre scelte nel cammino della vita. È come un’esperienza nuziale profondissima e inesauribile. È un dono che si riceve e da cui sgorga un fervido spirito missionario, come quello di S. Paolo, degli apostoli e della samaritana (cf. EG 120).
Evangelizzare “senza nulla di proprio”
Nella “Lettera ai Fedeli” S. Francesco dà risalto alla virtù della povertà scelta da Cristo “insieme alla sua madre beatissima” (FF 182).
Spargendo il seme della povertà nei suoi Scritti il Santo ci propone questa virtù come fondamentale non solo per poter fare spazio all’amore di Dio, ma anche per testimoniarlo in modo veritiero. Per eseguire questo compito nella povertà di spirito ci si deve svuotare di sé evitando di turbarsi o di scandalizzarsi per il peccato degli altri e di avere la presunzione di volerli convertire attraverso il proprio esempio.
Esprime questo pericolo di cadere nella ricerca di un facile proselitismo il brano di S. Bonaventura tratto dalla Legenda Maior, in cui il Signore dice a S. Francesco turbato dai cattivi esempi dei frati: “Perché ti turbi, tu, povero omuncolo?… Io ho chiamato, io conserverò e io pascerò e, al posto di quelli che si perdono, altri ne farò crescere…” (FF 1140).
L’Ammonizione XI propone di non lasciarci prendere dall’ira o dallo sdegno per il peccato degli altri e sostiene: “Quel servo di Dio che non si adira, né si turba per alcunché, vive giustamente e senza nulla di proprio. Ed è beato colui che non si trattiene niente per sé, rendendo a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (FF 160). Il giudizio appartiene a Lui e noi non dobbiamo impossessarcene. Non ci compete, anche perché non siamo in grado di giudicare nessuno!
Inoltre lo sdegno e l’ira fanno ricadere su di noi il peccato dell’altro “perché il diavolo per la colpa di uno vuole corrompere molti” (FF 18).
Invece liberati dall’ira e dal risentimento, che “impediscono in sé e negli altri la carità” (FF 95), si può partecipare della misericordia di Dio e comunicarla al mondo.
È quello che ha fatto S. Francesco che non si è “conturbato” (FF 278) quando i frati non gli hanno aperto la porta del convento nel cuore della notte, in un inverno fangoso e rigido, ma è rimasto in comunione con Cristo in spirito di “vera letizia”.
Graziella Baldo