RITIRO DI AVVENTO 2018

 

Introduzione

Stiamo cominciando il tempo di Avvento, tempo di preparazione alla venuta del Signore. In queste settimane noi eserciteremo un tratto della nostra vita cristiana che è proprio del credente per tutto l’anno, non solo in un determinato periodo. Ma se è importante che noi lo richiamiamo e lo mettiamo a tema per un periodo ben preciso, questo è doveroso sia perché è un tratto fondamentale della nostra fede, sia perché noi rischiamo di emarginarlo, come un elemento di poco conto.

 

Noi siamo in attesa. Il credente non è compiuto su questa terra, e il dispiegarsi del tempo storico, per quanto abitato dalla presenza del Signore, non è la pienezza che desidera.
C’è dell’altro, che l’esperienza di questo mondo non è in grado di offrire, nemmeno l’esperienza religiosa possibile in questo mondo è l’esperienza completa e ambìta. Noi attendiamo ancora dell’altro.
E tra il dono di fede che già possediamo e il possesso finale cui aspiriamo, si dispiega il senso della nostra vita cristiana come possesso e insieme rimando, esperienza e insieme assenza, soddisfazione e insieme sospiro.

 

Per poter esprimere la nostra dimensione di attesa, occorrerà che noi sappiamo cosa stiamo aspettando. Pertanto quest’oggi prendiamo in considerazione la liturgia natalizia, quell’incontro con il Salvatore che si è vissuto nella carne 2000 anni fa e che noi celebriamo nella liturgia, perché è la cifra dell’incontro con il Signore possibile ancora adesso nella fede e alla fine dei tempi nel suo secondo Avvento.
Il modo in cui il Signore si è posto nei confronti dell’umanità in quella prima venuta nella carne è il modo in cui ancora adesso si pone nei nostri confronti, attraverso la fede, ed è il modo in cui ancora si porrà con noi al suo ritorno definitivo, quando sulle nubi del cielo verrà e sarà visibile a tutti, nella sua gloria.

 

Quell’incontro tra Dio e gli uomini è celebrato nella nostra liturgia natalizia con diversi elementi che vogliono proprio svelare quel porsi di Dio nei nostri confronti, quell’offrirsi a noi. Il senso di quel primo incontro è manifestato attraverso i vari elementi della celebrazione, primo tra tutti il dato scritturistico, perché nella Liturgia della Parola della Messa si annuncia il Mistero di Salvezza che si vuole celebrare, di cui si vuole offrire l’esperienza nel rito.

 

Così, all’interno della liturgia di quel giorno di Natale ho pensato di prendere in considerazione le prime letture della Messa, quelle splendide profezie del profeta Isaia, che raccolgono l’attesa alimentata dal Signore e così ci permettono di leggere anche la nostra attesa nei confronti dell’incontro con lui. Una attesa legittimata proprio dal contenuto di quelle profezie. Cosa possiamo, cosa dobbiamo aspettarci dall’incontro con il Signore? Cosa sperare dalla sua venuta nella fede? E dal suo secondo ritorno? Le attese stesse che Isaia ha espresso e consegnato alla speranza del suo popolo perché desiderasse l’incontro con il suo Signore sono anche nel nostre attese e le nostre stesse speranze.

 

Il lezionario di Natale

La festa di Natale conosce da tempo immemorabile 4 celebrazioni: la Messa della vigilia, la Messa della notte, dell’aurora e del giorno. Ogni Messa natalizia conosce un suo formulario di orazioni e di letture, che la connotano con alcune caratteristiche peculiari, che si richiamano anche al momento astronomico del giorno: il tramonto, la notte, l’alba, il pieno giorno.
Le letture del profeta Isaia sono tratte da tre segmenti: Uno preso dal proto-Isaia, quello connotato storicamente dalla minaccia della invasione assira dell’VIII secolo a.C. (Is 9,1-6); un brano dal deutero-Isaia, il libro del sorprendente ritorno, della notizia insperata della fine della schiavitù babilonese (Is 52,7-10); e due brani dal trito-Isaia, la sezione della fatica del ritorno alla terra promessa dopo l’esilio, con la memoria delle promesse che stentano a realizzarsi dopo gli entusiasmi iniziali (Is, 62,1-5.11-12).
Tutto il libro del profeta Isaia è rappresentano nel giorno di Natale, dopo aver animato da protagonista l’attesa del tempo di Avvento.
La scelta dei brani è legata alla luminosità di quel momento della giornata, oltre che al brano evangelico di riferimento:
* la vigilia, all’accensione delle lampade serali, si annuncia la città che splende come una lampada, che brilla nell’oscurità incipiente.
* la notte al popolo immerso nelle tenebre che vede una luce che non è di questo mondo.
* l’aurora, alla voce dall’estremità della terra, per la luce che si staglia dall’estremità della terra nel suo albeggiare.
* Il giorno, per la visione con gli occhi dell’opera del Signore.
I salmi che corredano questa carrellata, che sintetizza tutta l’attesa di Salvezza del popolo di Israele, sono il salmo 88, che richiama le promesse davidiche, legato alla pagina evangelica della vigilia con l’inserimento di Gesù nella genealogia davidica di Giuseppe. Gli altri salmi 95.96.97 sono salmi “regali”, in cui si celebra il regno di Dio che viene e si realizza su tutta la terra, per tutti i popoli.

 

[Entriamo anche noi nell’annuncio del profeta e gustiamo questa carrellata profetica, per cogliere il senso della nostra attesa del Signore. Lettura dei brani].

 

Nella carrellata di queste immagini di Isaia vorrei soffermarmi su 4 immagini, che possono riempire di senso la nostra attesa del Signore.

 

La prima immagine è quella della Sentinella.
La sentinella è quella figura militare che rimane sveglia e osserva ogni movimento. Deve vedere per prima, deve essere svelta di giudizio, deve riconoscere le cose a nome di tutti gli altri.
Alle sue spalle e davanti a sé c’è una città intera che confida nella sua vigilanza per poter sorgere appena necessario.
La sentinella sta lì ferma, per paura? Se non ci fossero dei timori non ci sarebbe bisogno i vigilare! C’è una paura, una minaccia che chiede alla sentinella di rimanere desta e vigile? Quale paura ha messo le sentinelle nei loro posti di vigilanza?
La città che devono vigilare, nelle immagini di Isaia è Abbandonata, è Devastata (I); Sion è in rovina (IV). Tornano alla mente le immagini recenti vecchie e antiche delle città distrutte dalle guerre. Carcasse di case, ormai inospitali. Isaia sa cosa vuol dire una città in guerra, una città che è prigioniera, conquistata in armi. La popolazione l’abbandona, emigra altrove… anche Dio se ne è andato e sembra aver consegnato la sua gloria, cedendo il suo popolo all’occupante straniero.

 

Cosa aspetta ancora la sentinella? Perché rimanere vigilanti davanti ad un cumulo di rovine?
La sentinella rimane ad aspettare non una minaccia ma una aurora. La sentinella è lì non per mettere in allarme dall’avversario che sale contro la città, ma per gridare all’arrivo della luce. «Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion» (IV).
Esse sono lì per vedere Dio che viene ad abitare nella città abbandonata. La sentinella non si concede riposo «finché non sorga come aurora la giustizia, la salvezza non risplenda come lampada» (I)

 

Noi siamo chiamati ad una vigilanza -ce lo ripete sempre il vangelo della prima domenica di Avvento- e questa vigilanza ci chiede di continuare a guardare per una città che va in pezzi. Non c’è rovina del nostro mondo che ci autorizzi a smettere di guardare, che ci consenta di smettere di attendere il Signore. Noi siamo qui non per gridare la minaccia, ma senza riposo fissiamo l’orizzonte per esultare di gioia alla presenza del Signore. Dovunque noi vediamo il Signore all’opera e ne riconosciamo la umile presenza sua e del suo regno, noi siamo chiamati a gridare, dalle rovine del nostro mondo. Non manca la guerra e l’ingiustizia, come pure il senso di abbandono, ma la sentinella è lì non come profeta di sventure, ma come l’annuncio del salvatore.

 

Verrà alla fine dei tempi il Salvatore, ma nel mistero, il suo Regno è già presente adesso, e dove lo vediamo all’opera noi siamo chiamati a “fare del casino”, a richiamare l’attenzione, come deve fare il vigilante, sulla presenza del Signore e sulla sua opera di Salvezza.

 

downloadL’araldo.
Le profezie del Natale sono molto sonore. Insieme agli urli e alle grida di gioia si distingue anche un messaggio chiaro, dal contenuto ben decifrabile: «Dite alla figlia di Sion: Ecco, arriva il tuo salvatore; ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede» (III). Colui di cui hai sentito la mancanza è qui, e ha con sé il dono che aspettavi. Il contenuto del messaggio è quindi una visita: colui da cui ci sentivamo abbandonati è qui, è tornato. Dove noi pensavamo di essere all’anarchia, sentiamo invece dire che “Regna il nostro Dio” (Cfr. IV).
Questa presenza dell’assente è consolazione per le prove subite, è liberazione dall’oppressore, è riscatto dalla schiavitù. Il cuore dell’evangelista è che questa visita è una visita liberante. Accade come al tempo di Madian, quando «tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva, la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino» (II).

 

Cosa successe a Madian? Gedeone sconfisse i madianiti con 300 uomini, contro un esercito ben più numeroso e liberò Israele dalla oppressione di chi gli sottraeva i raccolti e depredava il suo territorio (Gdc 6-7). Non fu la forza o l’abilità del popolo a salvare Israele, ma una manica di insufficienti soldati, che nemmeno dovettero sguainare le spade. Viene il Signore e ha con sé il premio, il dono… ma non è quello che umanamente ci aspetteremmo. Ha “snudato il suo santo braccio davanti alle nazioni”… ma per fare cosa? Il suo braccio non è servito per lanciare la carica delle schiere angeliche a fare vendetta dei nemici di Dio, ma per essere inchiodato alla croce.
Come leggevamo domenica scorsa, il regno di Dio non è un regno di questo mondo, con le logiche di forza e potenza per cui legioni di soldati avrebbero impedito la cattura del loro Signore. Il regno di Dio vince con logiche diverse, come a Madian. Non con una violenza più grande il Signore compie il suo regno e realizza la liberazione del suo popolo.
Il contenuto dell’evangelizzazione a cui noi siamo chiamati è quella coraggiosa di annunciare la presenza di un Dio che non risponde alle logiche umane e alle attese che noi vorremmo. C’è, è liberante, ma non nel conflitto che noi immaginiamo. La redenzione e la vittoria è come quella di Madian, con strumenti insufficienti, e che non ispirano certamente consenso e fiducia.
Anzitutto il nostro Dio viene e sta nella condizione disagiata della città degli uomini, viene per starci. Inoltre viene nell’aspetto umanamente deludente, ma ben più efficace. Il Signore non compie una brillante campagna militare che fa vincere una battaglia: egli offre una vittoria definitiva. La gioia di chi si fida del Signore e si lascia salvare da lui è una gioia che non ha più la possibilità di essere perduta. È la gioia di chi miete, e che quindi sa che nel granaio il suo cibo è assicurato. È la gioia di chi spartisce la preda della caccia… e non scappa più ormai. È la gioia di chi può distruggere gli strumenti di morte, perché non servono più: le calzature dei soldati, le vesti insanguinate… la guerra è definitivamente finita, non solo una battaglia.

 

Ad un mondo che cerca sempre dei leader vincenti, che offrano vittorie violente sui propri nemici, noi annunciamo un vangelo ben diverso, con l’unico potente strumento della nostra gioia: la gioia dell’evangelizzatore è la sua arma, non per l’incoscienza con cui alcuni non vedano problemi, ma per la contemplazione dell’esito di salvezza: è la gioia del magnificat che già esulta per ciò che ancora non è storicamente compiuto.

 

Le nozze

Per rendere efficace la salvezza che il Signore viene a portare, Isaia la tinge di colori nuziali (I). Viene il Re, il Signore… è uno sposo, che con la sua venuta rende il suo popolo “consorte” della sua condizione. La vittoria, la salvezza di cui stiamo parlando è questa partecipazione sua alla nostra vita e nostra alla sua vita. È ciò che nei giorni natalizi chiameremo “Meraviglioso scambio” e che già adesso con S. Paolo chiameremo essere diventati consorti con Cristo.
Essere elevati alla sua dignità, partecipi dello stesso destino è il cuore del mistero di Salvezza.
Abbiamo ormai chiaro che il Re messianico non viene per “risolvere problemi”, senza neanche scendere dal suo cavallo, per ritornare alle sue sedi regali e lasciarci qui, fino al nuovo intervento. Questo è più adatto a superman che al Messia.
Il Messia viene nel mondo e condivide la nostra condizione mortale, fino all’esito più drammatico, quello di sentirci dimenticati da Dio, maledetti per una morte infame e atroce, il vertice di ogni paura che abbiamo: soffrire come un animale, per divertimento, senza soccorso, derisi da tutti, per ore. Ma nella condivisione, offre a noi la sua condizione divina: conoscere il Padre e la sua misericordia, essere suoi interlocutori, partecipare della sua potenza di vita e santità.
Analogamente alle nozze, il coniuge prende il nome dello sposo, e così anche Gerusalemme avrà un nome diverso: «ti si chiamerà con un nome nuovo», non più abbandonata e devastata, ma “mia gioia” e “sposata” (I), un nomignolo da innamorati e il riferimento alla propria condizione. Più avanti i nomi si fanno più impegnativi e annunciano un rapporto tra Dio e il suo popolo ancora più stretto: «Popolo santo, redenti dal Signore, Ricercata, Città non abbandonata» (III).

 

A noi che viviamo questo tempo presente, vivere questa dimensione nuziale richiede di saper appassionarci anche noi, come il Signore, per questa città degli uomini. È la “Abbandonata”, la “Devastata” (I), è la “Tenebrosa” (III) eppure “il Signore troverà in lei la sua delizia” “Dio gioirà per lei”, come gioisce lo sposo per la sua sposa.
Perché questo mondo possa sentirsi amato dal Signore, attende sguardi appassionati dai suoi discepoli, che annuncino come il Signore guarda adesso e guarderà alla fine dei tempi questa sua umanità così provata. Il Signore chiama “magnifica corona” “diadema regale” (I) quel cumulo di rovine, e le porta in palmo di mano: anche noi siamo chiamati a vedere la preziosità delicata e splendida di questa nostra città degli uomini. Tutte le genti vedranno la gloria di questa città: per noi credenti è appariscente già adesso.

 

La pace
La pace traspare da queste letture natalizie per i contesti bellicosi in cui Isaia scrive le sue profezie e per il canto angelico di Betlemme, che annuncia la pace in terra agli uomini “che sono nella benevolenza divina” (secondo la nuova traduzione a cui dovremo abituarci).
La fine della guerra è data, per Isaia, dall’apparire del re giusto, che si mette a reggere il suo popolo secondo la giustizia. È una pace che non è frutto dell’accordo degli uomini, o della vittoria sui nemici, ma di una liberazione da ciò che umilia e opprime la vita dell’uomo e che impedisce la vita. Questa liberazione non è autoprodotta dal popolo di Dio, indipendentemente da Dio, come se fosse uno sforzo che dobbiamo esibire e offrire a Dio.
È invece la pace l’opera di Dio. Lui è il “principe della pace” (III), ovvero il primo e il fondamento stesso della pace, di una pace che non avrà mai fine. Questo farà lo zelo del Signore.

 

Come ai tempi di Gedeone con Madian o degli altri giudici con i popolo intorno ad Israele, la pace è nella presenza del Signore nella vita del suo popolo.
È nella presenza del Signore la possibilità di una pace autentica, che noi annunciamo al mondo, insieme agli angeli di Betlemme.
Fuori della presenza del Signore non è possibile alcuna pace, solo strategie insufficienti. Ma lui viene, e quindi la pace è possibile.
I credenti annunciano al mondo, contro ogni evidenza umana e possibilità credibile che è possibile una pace sovrumana, perché il Signore è presente.
Fosse assente, allora noi ci rassegneremo alla rovina della città degli uomini e al suo abbandono. Ma lui viene. La sua presenza adesso nel mistero ci fa già sperare e lavorare per un pace che è un testardo atto di fede contro ogni evidenza nella capacità di Dio di realizzare il suo bene.
“Sono belli i piedi del messaggero che annuncia la pace” (IV) perché il vangelo è questa possibilità di pace che gli uomini posso cogliere se lasciano regnare il Signore e non la propria passione. E questo Vangelo e questa pace sono sempre possibili, ogni volta che l’uomo si apre al suo Signore e lo accoglie come re della propria vita, gli permette di reggere la propria esistenza. C’è un inevitabile principio di conversione personale e comunitaria, nell’esperienza della pace.

 

Don Stefano Culiersi