La volontà decisionale

Quando io, in quanto essere umano, decido di fare qualcosa, la mia volontà non è sola, ma si rapporta alle mie emozioni, ai miei valori, ai miei desideri, alle mie conoscenze, al mio intelletto, ai miei pensieri, alla mia cultura… Tutta la mia persona si esprime nell’azione, per cui non esistono atti “piccoli”, caso mai esistono invece atti consapevoli o inconsapevoli.

Nell’agire umano tutto è grande, perché in esso le diverse facoltà spirituali tendono ad una sintesi. E affermare di agire “praticamente” lasciando perdere la teoria è assurdo, perché l’atto manifesta la nostra volontà che parte da un ragionamento fondato sulle nostre convinzioni.

A questo proposito S. Bonaventura osserva che la volontà senza l’apporto dell’intelligenza è “appetito”, mentre con l’aiuto dell’intelligenza è guida della “decisione”.

La “volontà è libera, ma è anche fallibile. Quando [l’uomo] sceglie, lo fa sempre alla luce di un criterio e questo può essere la bontà oggettiva o invece il vantaggio in senso utilitaristico” (Giovanni Paolo II, Memoria e identità, BUR, 2013, p. 66).

Generalmente non si fa il male credendo di fare il male, bensì credendo di fare il bene. Ma se nelle scelte si è attratti da un bene sbagliato, si arriva al fallimento della vita e si rischia l’irreparabile. Ecco perché è importante riflettere su cos’è il bene prima di prendere una decisione.

 

L’agire trasformante

Gli atti umani, che seguono una decisione presa con tutto il nostro essere, hanno una grande importanza per la costruzione dell’identità della persona. L’atto forma la persona.

img120-3Questo principio è fondamentale nella filosofia di S. Giovanni Paolo II il cui pensiero si può esprimere sinteticamente in questa affermazione: l’uomo, in quanto uomo, si trasforma divenendo buono o cattivo a seconda dell’atto che compie. Così facendo nel tempo egli costruisce la sua memoria, la sua storia, la sua identità, la sua personalità.

Le nostre scelte sono per noi o contro di noi a seconda che agiamo attirati rispettivamente dal bene giusto o sbagliato. Siamo responsabili delle nostre decisioni, perché da esse dipende la nostra realizzazione che si ripercuote sugli altri.

Lasciandoci attirare da un bene sbagliato e agendo per esso, costruiamo la nostra infelicità, il nostro risentimento, il nostro pessimismo che rende infelice anche chi ci circonda. Al contrario, lasciandoci attirare dal bene giusto e agendo secondo esso, camminiamo verso la nostra e l’altrui felicità.

 

“La lettera uccide, lo spirito vivifica”

Il pensiero francescano dà molto rilievo all’agire in conformità alla Parola, poiché privilegia l’esistere piuttosto che la speculazione confermando l’importanza dell’agire per la formazione della persona che si arricchisce della conoscenza esperienziale.

Lo si percepisce nella sentenza di S. Francesco: “Tanto uno sa quanto fa” (FF 1628). Questa affermazione lapidaria vuole esprimere come sia fondamentale, per la formazione della persona e per la comprensione della Parola, la fedele messa in pratica di quest’ultima.

Infatti, come osserva S. Bonaventura, il Santo la ascoltava attentamente e “ruminava continuamente con affettuosa devozione ciò che aveva ascoltato con mente attenta” (FF 1187). Voleva che i frati studiassero non tanto per sapere come dovevano parlare, quanto per mettere in pratica le cose apprese e solo quando le avevano messe in pratica le potevano proporre agli altri. Voleva che i frati fossero discepoli del Vangelo e progredissero nella conoscenza della verità, “in modo tale da crescere contemporaneamente nella purezza della semplicità” (FF 1188).

Aveva consapevolezza che la stessa Parola di Dio può essere compresa riflettendo su di essa in modi diversi: essa può vivificare o uccidere a seconda che ci si lasci guidare dallo Spirito o che la si interpreti ascoltando solo il proprio io.

S. Francesco pensa a questa seconda possibilità quando dice: “Sono uccisi dalla lettera quei religiosi che non vogliono seguire lo spirito della divina lettera, preferendo fermarsi alla sola conoscenza delle parole e insegnarla agli altri. Al contrario, ricevono vita dallo spirito della divina lettera coloro che non attribuiscono al proprio egoismo ogni scienza che possiedono e aspirano a possedere, ma con la parola e con l’esempio la riferiscono all’altissimo Signore Dio, al quale ogni bene appartiene” (K. Esser, Amm.7, in “Gli Scritti di S. Francesco d’Assisi”, EMP, 1982, p. 140).

La fedeltà alla Parola riguarda non solo la sua conoscenza attraverso la riflessione affettuosa e la vita vissuta come figli del Padre di cui fanno le opere, ma anche la missionarietà che ne deriva. Come dice sinteticamente il papa: “Siamo chiamati a vivere la contemplazione anche in mezzo all’azione e ci santifichiamo nell’esercizio responsabile e generoso della nostra missione” (GE 26).

 

La missione

“Chi desidera veramente dare gloria a Dio con la propria vita, chi realmente anela a santificarsi perché la sua esistenza glorifichi il Santo, è chiamato a tormentarsi, spendersi e stancarsi cercando di vivere le opere di misericordia” (GE 107).

Dio non vuole che offriamo i nostri sacrifici a vantaggio suo, perché non ne ha bisogno. Invece vuole che siano offerti per la nostra devozione e a vantaggio del prossimo (cfr. GE 106).

Siamo chiamati a “far trasparire” (GE 63) il Maestro nella quotidianità della nostra vita, secondo le parole del papa che dice: “Ogni santo è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo” (GE 19).

Come dice S. Teresa di Calcutta: Dio “dipende da noi per amare il mondo e dimostrargli quanto lo ama.” (GE 107).

 

Graziella Baldo