Ci chiediamo: S. Francesco è un uomo di cultura?
Che rapporto ha con i dotti del suo tempo? Che cosa può comunicare oggi agli uomini di cultura?
Per entrare in comunione col linguaggio di S. Francesco, dobbiamo liberarci dai nostri schemi mentali legati al mito scientistico del pensiero moderno che finalizza l’uomo al mondo. Dobbiamo, invece, ricuperare il termine sapienza, tanto caro a S. Francesco, sostituito oggi dal termine cultura.
Anche se è vero che tra cultura e sapienza c’è una certa vicinanza, perché entrambe hanno una connessione di vita teorica e pratica, di conoscenza e di azione, tuttavia non possiamo dimenticare che S. Francesco non è uomo di cultura. Anzi, l’incontro tra gli uomini di cultura e S. Francesco è stato difficile, nonostante che anche il Santo sia stato tentato di avere molti libri. Egli, però, preferisce alla conoscenza in se stessa, la conoscenza sperimentale del Regno di Dio che egli acquisisce attraverso l’assunzione della morte della propria espressività, in quanto capacità di salvezza per l’uomo. Egli riesce a restare di fronte al mistero profondo di Dio attraverso una lunga e assidua preghiera dalla quale trae quella novità di vita che i dotti non capiscono, perché non è nel passato.
S. Francesco personalizza la sapienza identificandola col Figlio di Dio, vera sapienza del Padre. La sapienza dello Spirito non è per S. Francesco una dottrina. Se così fosse, i dotti sarebbero i soli a possederla e i semplici non potrebbero mai acquisirla.
La sapienza, per il Santo di Assisi, non si attua sul piano del puro conoscere, ma è l’avere il Figlio di Dio in se stessi (cf V.C. Bigi, La cura del sapere nelle Fonti Francescane, Edizioni Porziuncola, pp. 9-10; 14-15). I
l conoscere per se stesso non interessa a S. Francesco il quale è mosso piuttosto da un’“insonne ricerca, sollecitudine attenta e decisa per ricuperare nel suo esistere il senso dell’esistere di Cristo, per esserne trasparente immagine e similitudine” (ibidem, pp. 31-32). Il libro da cui il Santo di Assisi trae il nutrimento spirituale per una vita vissuta come cammino di salvezza, non è un libro di carta, utile per la mediazione culturale, ma il libro della vita e delle azioni di Cristo. È, in una parola, la sequela Christi. Illuminante in tal senso è la lettera che S. Francesco scrive a S. Antonio maestro di teologia a Bologna: “Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché in questa occupazione tu non estingua lo spirito dell’orazione e della devozione, come sta scritto nella Regola” (FF 252). Il Santo non vuole che i frati bramino i libri, ma che si appassionino a conquistare la pura e santa semplicità (cf Leg. Per. 70, 1623).
Tuttavia coloro che attribuiscono a S. Francesco il culto di un semplicismo fondato sull’ignoranza, vengono smentiti da questa breve lettera a S. Antonio, da cui traspare tutta la riverenza del Santo per coloro che insegnano teologia.
Il suo timore per nulla infondato è, però, che lo studio porti alla presunzione, tanto temuta da S. Bonaventura, di chi si compiace del sapere come se fosse la conquista del proprio ingegno e perde di vista l’essenziale della vita che è seguire il libro della sequela Christi. È questa l’impronta culturale con cui S. Francesco ha dato vita a una rinascita dello spirito evangelico che caratterizza tutta la sua spiritualità volta a ricuperare la dignità dell’uomo.
Il conoscere in se stesso non salva l’uomo.
L’erudizione e la curiositas non saziano la sete di pienezza di senso e di vita che ha caratterizzato tutta la vita del Poverello di Assisi. Per lui se la scienza rimane fine a se stessa e non termina nella bona operatio è vana e illusoria perché è incentrata sulla soddisfazione della propria volontà che porta a mondanizzare la Parola di Dio attraverso un’appropriazione indebita che la riduce a lettera morta e la priva della forza vivificante dello Spirito.
Nel nostro tempo il filosofo Blondel, nella sua opera “L’action”, afferma che l’azione non è solo un’esecuzione, per cui io so e metto in pratica quello che so. Egli ritiene che la parola si compia nell’azione dell’uomo a livello esistenziale, non a livello dell’efficienza del fare. Perfino lo studio della Sacra Scrittura può essere pericoloso se si crede con esso di poter diventare più devoti e colmi dell’amore di Dio. Non c’è stretta correlazione tra amore e conoscenza. La maggior conoscenza non porta necessariamente a un maggior amore. La conoscenza può portare più amore, solo a condizione che esuli dalla conoscenza stessa e sia finalizzata a un’interiorità di vita evangelica da realizzarsi nell’esistere.
Il cristiano autentico non è ipocrita come chi si costruisce un castello ideale di bontà che però non comunica nella pratica. Il cristiano autentico si manifesta nella gioia in cui si disvela la risposta emozionale positiva alla salvezza, e non si lascia dominare dal male che è nel mondo, ma sa che lo Spirito del Signore è più forte dello spirito del mondo e della carne e che solo da lui può venire la sapienza che salva.
Lucia Baldo
Il Cantico