La sapienza della carne

img66Nella storia del pensiero l’uomo moderno ha messo se stesso al centro della sua attenzione e così ha occupato quel posto che appartiene solo a Dio. Ma, dopo un ingenuo ottimismo iniziale sulla sua capacità di autorealizzarsi, che ha raggiunto un momento di grande splendore con la Belle Époque, nel Novecento ha provato una profonda delusione per il crollo delle sue certezze e aspettative.

Il potere che la tecnologia aveva sembrato offrirgli era stato impressionante: l’illuminazione ovunque, la scoperta delle onde radio, il cinematografo e altri mezzi di comunicazione di massa, la pastorizzazione, il vaccino e le altre scoperte della medicina… La tecnologizzazione della società era stata una delle cause della diffusione di un facile ottimismo verso un futuro senza precedenti. Ma nel “secolo breve” la tecnologia, ponendosi al servizio della guerra con armi di distruzione di massa, ha perso la sua innocenza rivelando la sua possibile atrocità e disumanità nel fare tutto ciò che è possibile senza limiti.

Comunque, l’enorme diffusione della tecnica ha fatto sì che oggi si intenda “reale” tutto ciò che è possibile realizzare tecnicamente e si è creata l’illusione che i problemi umani siano risolubili con un approccio tecnologico. La priorità non è più la conoscenza, ma l’acquisire una sempre maggiore capacità di fare, nell’ebbrezza di una totale autonomia (vedi Paolo Benanti, La condizione tecno-umana, EDB, p. 49). Ma così l’uomo si trova vuoto di ciò che gli serve per essere umano: l’amore e il senso della vita.

Come ci dimostra la storia, l’uomo cade inevitabilmente facile preda di se stesso quando non si pone le domande cruciali sull’esistere, ma si lascia solo guidare dalla sua volontà di potenza. Quando l’uomo occupa il posto di Dio, le sue passioni lo distruggono e lo conducono verso l’immoralità. Precipita in una condizione drammatica ed ha bisogno di Qualcuno che lo salvi.

Forse questo è il tempo propizio per comprendere più facilmente l’aut aut che S. Francesco presenta a tutti i fedeli quando pone in contrapposizione l’agire dell’uomo secondo la propria volontà di potenza e l’agire dell’uomo che si sente creatura davanti al suo Creatore: “Non dobbiamo essere sapienti e prudenti secondo la carne”, ma dobbiamo desiderare sopra ogni cosa di diventare “dimora” (FF 200) dello spirito del Signore facendo la volontà del Padre nel compimento delle sue opere.

 

La sapienza dello Spirito

Per consentire a Dio di donarci la sua sapienza è necessario farle spazio, dopo essersi svuotati della propria sapienza della carne. Come è possibile questo svuotamento se non nella povertà di spirito?

“Fra le altre insigni e preclare virtù, che nell’uomo preparano un luogo adatto all’abitazione di Dio e mostrano una via migliore e più rapida per camminare e giungere fino a Lui, la santa povertà per sua natura si innalza su tutte e precede per grazia singolare i meriti delle altre, perché è fondamento e custode di ogni virtù e a buon diritto il nome di lei occupa il primo posto fra le virtù evangeliche. Le altre, infatti, non avranno da temere né caduta di pioggia, né irrompere di fiumi, né soffiare minaccioso e rovinoso di venti, quando siano saldamente fissate sul fondamento della povertà” (FF 1959).

L’amore infinito di S. Francesco per “Madonna Povertà” è originato dal desiderio di vivere nell’espropriazione di sé, deponendo il “bagaglio della volontà propria” (FF 1971) ed eliminando tutto ciò che si oppone o toglie spazio alla sapienza dello spirito del Signore.

“La radicalità con la quale S. Francesco vive l’intuizione della povertà è molto forte e talvolta incomprensibile anche ai suoi. Si pensi a quando un frate indicò la sua cella dicendo: «Quella è la cella di Francesco». Dopo di che il Santo non ci volle più entrare, perché non poteva sopportare che qualcosa fosse considerato suo. A noi, così abituati al compromesso, sembra una posizione da estremista. E lo è, ma è l’estremismo di chi ha colto nell’altissima povertà non una realtà che si esprime solo in fatti esteriori, ma qualcosa di più profondo, altrimenti sarebbe veramente eccessiva!” (AAVV, Poveri per vivere da fratelli, 2014, p. 70-71).

La povertà esteriore ha senso solo se è segno della povertà interiore. La vera povertà è mettersi nella condizione della dipendenza totale da Dio e della rinuncia all’autonomia dell’autosufficienza. È rinuncia al peccato della propria volontà per mettersi al servizio della volontà del Padre.

È una realtà che investe tutto l’agire dell’uomo quando si pone al servizio dello spirito di Cristo povero che gli ha lasciato l’esempio perché ne segua le orme (cfr. FF 184).

Ecco allora che il povero di spirito non attribuisce a sé il bene che fa, ma, rendendo ogni “lode, gloria e onore e benedizione”, lo restituisce a Lui che “solo è buono” (FF 202) e può recitare con S. Francesco: “E restituiamo al Signore Dio altissimo e sommo tutti i beni e riconosciamo che tutti i beni sono suoi e di tutti rendiamo grazie poiché procedono tutti da Lui. E lo stesso altissimo e sommo solo vero Dio abbia, e gli siano resi, ed Egli stesso riceva tutti gli onori e l’adorazione, tutta la lode e tutte le benedizioni, ogni rendimento di grazie e ogni gloria, poiché ogni bene è suo ed Egli solo è buono” (FF 49).

Graziella Baldo