L’espropriazione della propria volontà

img841“È una vita espropriata la vita del Poverello. Non ha fatto opere che rimangono come chiese, ospedali, scuole; non si è specializzato in alcuna attività, come quella del muratore, dell’infermiere, del predicatore, del missionario”. Il “proprio” della sua vita espropriata “fu di testimoniare l’amore davanti a tutti gli uomini, nel vivo desiderio e sete inestinguibile di riportare l’amore nel cuore e nella società degli uomini” (V.C. Bigi, Il linguaggio dell’amore, 1989, Ed. Francescane, p. 68).

Tale testimonianza d’amore fu possibile perché egli si espropriò della sua volontà rinnegando se stesso per poter essere dimora dell’amore di Dio.

Qual è la più grande espropriazione se non la rinuncia alla propria volontà?

S. Francesco vuole vivere da espropriato, perché vuole vincere la sua disobbedienza alla volontà del Padre, che è la radice del peccato (cfr. FF 147). E, per obbedire al Padre, si lascia guidare dall’azione esemplare di Cristo, con-compiendo la sua azione.

Cristo povero non ha forse lasciato “a noi l’esempio perché ne seguiamo le orme” (FF 184)?

 

L’obbedienza vicendevole

Nella Regola non Bollata S. Francesco invita i frati a seguire “la vera e santa obbedienza del Signore nostro Gesù Cristo” (FF 20) nel servizio e nell’obbedienza vicendevole. È questa una colonna su cui si costruisce la fraternità francescana in cui non c’è l’abate (come tra i benedettini), ma il “ministro” (FF 19) che è il servo incaricato di “lavare i piedi dei fratelli” (FF 152) valorizzandoli nelle loro diversità.

Ma ancora più profonda e originale è l’interpretazione dell’obbedienza del superiore nei confronti del suddito, quando quest’ultimo gli è di “ostacolo” (FF 234) o se addirittura lo picchia. L’opposizione è ritenuta una “grazia ricevuta… come obbedienza del Signore Iddio” (FF 234) e di S. Francesco. Compito del ministro è quello di servire i sudditi e amarli offrendo loro misericordia, come fece Cristo nei confronti dei suoi persecutori.

Così scrive S. Francesco ad un ministro: “Ed io stesso riconoscerò se tu ami il Signore e se ami me suo servo e tuo, se farai questo, e cioè: che non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato quanto più poteva peccare, che dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne ritorni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede; e se non chiedesse perdono, chiedi tu a lui se vuole essere perdonato. E se comparisse davanti ai tuoi occhi mille volte amalo più di me per questo, affinché tu lo possa conquistare al Signore ed abbi sempre misericordia di tali frati” (FF 235).

D’altra parte anche se il suddito vede cose migliori del superiore, il Santo gli raccomanda di sacrificare “le cose proprie a Dio” e di obbedire, poiché “questa è la vera e caritativa obbedienza che soddisfa Dio e il prossimo” (FF 149).

Ma c’è un’eccezione: “Se poi il superiore comanda al suddito qualcosa contro la sua coscienza, pur non obbedendogli, tuttavia non lo abbandoni; e se per questo dovrà sostenere persecuzioni da alcuni, li ami di più per amore di Dio” (FF 150)!

Anche se S. Francesco è così radicale da paragonare l’obbedienza di un frate a quella di un “morto” (FF 1736.736.1107), fa però un’eccezione per il caso di coscienza.

 

L’espropriazione della colpa altrui

La fraternità, secondo S. Francesco, esige anche la rinuncia allo sdegno per la colpa dei fratelli. S. Bonaventura ci racconta che: “Una volta,turbato per i cattivi esempi, con grande ansietà di spirito, pregava per i suoi figli il Padre misericordioso; ma si ebbe dal Signore questa risposta:”Perchè ti turbi, tu, povero omuncolo?

Forse che io ti ho costituito pastore della mia Religione, senza farti sapere che il responsabile principale sono io?

Ho scelto te, uomo semplice, proprio per questo: perché le opere che io compirò siano attribuite non a capacità umane, ma alla grazia celeste. Io ho chiamato, io conserverò e io pascerò e, al posto di quelli che si perdono, altri ne farò crescere. E se non ne nasceranno, li farò nascere io; e per quanto gravi possono essere le procelle da cui questa Religione poverella sarà sbattuta, essa, col mio sostegno sarà sempre salva»” (FF 1140).

Questo brano sembra dire che l’ira e lo sdegno per la colpa degli altri non sono di nostra competenza. Sono un’appropriazione indebita di un giudizio che non siamo nemmeno in grado di dare. Sono un volersi sostituire a Dio e volerlo fare uscire di scena per rimanere tronfi di se stessi, pretendendo di stare al centro di tutto per poi trovarsi vuoti di ciò che è essenziale per vivere.

Per non trovarsi sovraccarichi della colpa degli altri, che ricade su di noi come se fosse nostra, S. Francesco nella XI Ammonizione ci dice: “Al servo di Dio nessuna cosa deve dispiacere eccetto il peccato. E in qualunque modo una persona pecchi, il servo di Dio che si lasciasse prendere dall’ira o dallo sdegno per questo, a meno che non lo faccia per carità, accumula per sé – come un tesoro – la colpa degli altri. Quel servo di Dio che non si adira né si turba per alcunché, vive giustamente e senza nulla di proprio. Ed è beato colui che non si trattiene niente per sé, rendendo a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (FF 160).

L’amore infinito di S. Francesco per la povertà lo ha fatto vivere da espropriato, da vero discepolo e madre di Cristo a cui rendeva testimonianza illuminando gli altri in esempio (cfr. FF 178/2).

 

Graziella Baldo