S. Francesco va dal sultano
Nel 2019 ricorre l’ottavo centenario dell’incontro di S. Francesco col sultano arabo della Palestina, l’egiziano Melek El Kamel, avvenuto nel 1219 a Damietta, in Egitto, mentre la città si trovava assediata dai cristiani nel corso della V crociata. Dopo due tentativi di viaggi fatti per evangelizzare i musulmani (uno verso la Siria, l’altro verso il Marocco), interrotti il primo per una tempesta e il secondo per una malattia (cf FF 1170-1171), il giorno di S. Giovanni del 1219, secondo Joergensen, il Santo salpò dal porto di Ancona a bordo della nave dei crociati e approdò, dopo circa un mese, a S. Giovanni d’Acri da dove aveva in programma di andare nella città di Damietta, in Egitto, per incontrare il sultano. L’attacco a questa città da parte dei crociati, rispondeva a una strategia di alleggerimento della pressione delle forze musulmane contro la Palestina, suggerita dal legato papale, il cardinale Pelagio Galvani, vescovo di Albano. Il 20 luglio si era avuta una grande battaglia nella quale erano morti più di duemila saraceni, ma il 31 di quel mese, nel tentativo di assaltare Damietta, i crociati furono respinti dall’esercito comandato dal sultano d’Egitto e da suo fratello il sultano di Damasco. S. Francesco al suo arrivo a S. Giovanni d’Acri predicando ai crociati, ivi accampati, trovò una moralità ridotta in uno stato deplorevole. Fu in seguito alla nuova e grande disfatta dei crociati del 19 agosto, che “i cuori dei superstiti” divennero “meglio disposti ad ascoltare la parola del Santo, che predicava ad essi di convertirsi” (cf G. Joergensen, San Francesco d’Assisi, Porziuncola, pp. 218-219). Giunto a Damietta tra la fine di agosto e la fine di settembre insieme a frate Illuminato di nome e di fatto (cf FF 1173) (1), S. Francesco ebbe l’ardire di attraversare inerme gli schieramenti militari, che si trovavano l’uno di fronte all’altro, per incontrare il sultano.
Come incontrare gli “infedeli”: primo modo
Nella Regola non Bollata S. Francesco raccomanda ai ministri di mandare in missione presso i saraceni solo gli “idonei”, poiché, come scrive Giacomo da Vitry nel 1220 in una lettera a Onorio III sulla presa di Damietta, avvenuta in quell’anno, tra i frati inviati in missione si annoveravano “non solo i perfetti, ma anche i giovani e gli imperfetti” (FF 2211). Nella Regola Bollata questa preoccupazione è ancora più marcata (cf FF 107-109) ed è prevalente rispetto alle indicazioni su come incontrare gli infedeli che troviamo, invece, più dettagliate nella Regola non Bollata. In essa sono indicati due modi di avvicinarsi “spiritualmente” agli infedeli: “Un modo è che non facciano liti né dispute” (FF 43), dunque non siano violenti o litigiosi e non vogliano confrontarsi sul piano dell’eloquenza e della ragione (“non facciano dispute”), poiché S. Francesco, secondo quanto attesta S. Bonaventura, rispondendo al sultano che gli aveva proposto una disputa con i suoi “savi”, disse: “La nostra fede è superiore alla ragione e la ragione riesce persuasiva solo per chi crede” (FF 2701). A giudizio del teologo francescano mescolare la ragione alla fede equivarrebbe a mescolare l’acqua della filosofia, col vino della Sacra Scrittura. Questo sarebbe “un pessimo miracolo. Infatti noi leggiamo che Cristo trasformò l’acqua in vino e non viceversa” (cf S. Bonaventura, Collationes in Hexaemeron, XIX, 14). Ma, continua la Regola non Bollata: “…siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio”. Questa raccomandazione ci ricorda la XIX Ammonizione, dove S. Francesco dice: “E Beato quel servo che non viene posto in alto di sua volontà e sempre desidera stare sotto i piedi degli altri” (FF 169). Certamente questo non è un invito al vittimismo o all’autodenigrazione, ad accettare con viltà le condizioni imposte dal nemico, ad essergli succubi, a “cedere per amore del corpo ai nemici visibili e invisibili” (G. Joergensen, ibidem, p. 218), ma è un invito all’umiltà, alla mitezza, alla semplicità. Inoltre l’essere “soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio” non riguarda solo i frati in missione, ma anche i laici (cf FF 199) e i frati in patria. La soggezione alle creature umane si riferisce alla virtù della “santa obbedienza” per amore di Dio, virtù che pone ciascuno in ascolto (ob-audire) del Signore e “confonde ogni volontà propria corporale e carnale, e tiene il corpo di ciascuno mortificato per l’obbedienza allo spirito e al proprio fratello; e allora egli è suddito e sottomesso a tutti gli uomini che sono nel mondo, e non soltanto ai soli uomini, ma anche a tutte le bestie e alle fiere, così che possano fare di lui quello che vogliono, per quanto sarà loro concesso dall’alto dal Signore” (FF 258). Quando S. Francesco, insieme a frate Illuminato si recò dal sultano, andò come agnello in mezzo ai lupi, secondo le parole di S. Bonaventura riecheggianti il Vangelo di Matteo (10,16). I saraceni sono chiamati da S. Bonaventura “lupi”, perché catturarono Illuminato e Francesco, li minacciarono di morte, li maltrattarono, li percossero, li incatenarono e li ingiuriarono (cf FF 1173; FF 422), termini con cui i frati vengono assimilati al Cristo della Passione (2). L’Ammonizione IX, citando il Vangelo di Matteo (5,44) che invita ad amare i nemici, dice: “Infatti ama veramente il suo nemico colui che non si duole dell’ingiuria che l’altro gli fa, ma spinto dall’amore di Dio brucia a motivo del peccato dell’anima di lui…” (FF 158). I frati missionari non dovevano dimenticare che si trovavano tra i saraceni “per amore di Dio”, per fare conoscere Cristo, non per vanagloria. Infine “confessino di essere cristiani” (FF 42-43), poiché Cristo dice: “Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt 10,32; cf Lc 9,26). Papa Francesco direbbe: “Osino” incontrare l’altro (cf Msg Giornata della Pace 2019, 7) e riconoscano pubblicamente la propria fede in Cristo, senza paura. Il Santo rischiò di essere ucciso (come accadde proprio in quel tempo ad alcuni Frati Minori in Marocco), perché, come dicevano gli alti dignitari della corte, la loro legge proibiva di “prestare orecchio ai predicatori di altra religione” (FF 2233). Se poi qualcuno voleva criticare quella legge, gli si doveva mozzare la testa (ibidem); lo stesso sultano aveva promesso la ricompensa di un bisante d’oro per coloro che gli avessero portato la testa di un cristiano (FF 1173). Ma il sultano decise eccezionalmente di non uccidere S. Francesco, andando contro la legge, perché aveva affrontato la morte per salvargli l’anima (cf FF 2234) e (potremmo aggiungere con p. Pietro Messa) perché era un “uomo appassionato della cultura occidentale” (P. Messa, Il Papa in Marocco, terra dei Protomartiri francescani in “San Bonaventura informa”, Anno VII, n. 74). S. Francesco nonostante queste vicissitudini non si perse d’animo, ma predicò con coraggio la sua fede in Dio trino e uno e mostrò “fermezza” e “decisione”, “costanza di mente”, “forza d’animo”, “fervore di spirito” e “disprezzo della vita presente” (cf FF 422; 1173; 1356), cosicché il sultano lo ascoltò volentieri, stupito nel vedere che disprezzava i molti doni con i quali egli aveva tentato di “convertirlo alle ricchezze del mondo” e “lo guardava come un uomo diverso da tutti gli altri” (FF 422). In verità S. Francesco aveva capito che il potere si fa più insidioso quando, come dice Ilario di Poitiers, “non ci spinge verso la libertà, imprigionandoci, ma verso la schiavitù onorandoci nel suo palazzo;… non taglia la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro…” (S. Dianich, Il Messia sconfitto. L’enigma della morte di Gesù, Cittadella, p. 195). Vedendo che il sultano non si voleva convertire a Cristo, S. Francesco osò proporre, secondo la mentalità del tempo, la prova del fuoco per sé e per i sacerdoti del sultano: chi fosse uscito illeso dopo aver attraversato il fuoco, avrebbe dimostrato la verità della fede da lui professata. E poiché il sultano gli disse che i sacerdoti non avrebbero accettato, il Santo chiese di poter affrontare da solo la terribile prova. “Ma il sultano gli rispose che non osava accettare questa sfida per timore di una sedizione popolare… E benché non volesse passare alla fede cristiana, o forse non osasse, pure pregò devotamente il servo di Cristo di accettare quei doni per distribuirli ai cristiani poveri e alle chiese, a salvezza dell’anima sua” (FF 1174). Ma il Santo oppose un netto rifiuto e, non vedendo “progressi nella conversione di quella gente” (FF 1175), ritornò nei paesi cristiani.
Il secondo modo: “Quando vedranno che piace al Signore…”
Il secondo modo, indicato nella Regola non Bollata, di trattare gli infedeli, è la discrezione: “L’altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio” (FF 43). S. Francesco invita da un lato a usare la discrezione e la prudenza per scegliere i tempi e i modi più opportuni di “confessare Cristo”, ma, dall’altro lato, non indulge a possibili accomodamenti per propagandare una fede un po’ sincretista, in cui le differenze siano smussate allo scopo di dare agli infedeli una visione più vicina alla loro mentalità e, quindi, più accettabile. Al contrario, dice: “…annunzino la parola di Dio perché essi [i saraceni] credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose e nel Figlio redentore e salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani, poiché se uno non sarà rinato dall’acqua e dallo Spirito Santo, non può entrare nel Regno di Dio (Gv 3,5)” (ibidem). Il Santo di Assisi raccomanda ai frati missionari di avere chiara la propria identità di fede trinitaria e di trasmetterla senza concessioni e sconti, perché “comunicare un Vangelo light non significa comunicare di più” (S.E. Mons. M. Zuppi, Discorso all’Assemblea delle Aggregazioni laicali, Bologna 23 marzo 2019). Infine quando il Santo vide che “piacque al Signore”, ovvero quando capì che la missione di evangelizzare i saraceni non faceva prevedere possibili ulteriori progressi, ritornò in patria (cf FF 422) (3). S. Bonaventura precisa che il sultano nel licenziare il Santo, facendolo accompagnare dai suoi fuori dell’accampamento, aggiunse: ““…credo che la vostra fede sia quella buona e vera“. E da allora ebbe sempre la fede cristiana impressa nel cuore” (FF 2701). Non è forse, allora, ipotizzabile che l’incontro del sultano con S. Francesco possa essere stato all’origine della pace stipulata nel 1228, senza spargimento di sangue, tra Melek El Kamel e Federico II? (4).
Osare l’incontro
Rispetto a S. Francesco la nostra situazione è rovesciata, perché noi non ci rechiamo in Terra Santa per evangelizzare, ma dobbiamo incontrare lo straniero nel nostro Paese, dove egli si è rifugiato. Tuttavia quello che l’incontro di S. Francesco col sultano può insegnare a noi oggi è che dobbiamo scegliere sempre “uno spirito di dialogo anziché di chiusura o di scontro” (Msg Pace 2018, 4). Inoltre dobbiamo cercare di “integrare” i rifugiati e i migranti permettendo loro di “partecipare pienamente alla vita della società che li accoglie, in una dinamica di arricchimento reciproco e di feconda collaborazione…” (ibidem). Sappiamo, infatti, che “una sola cultura non esaurisce il mistero della redenzione di Cristo” (EG 118) e che il messaggio rivelato “possiede un contenuto transculturale” (EG 117). Perciò l’unica opzione è “la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio” (Documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato da Papa Francesco e dal Grande Imam Al-Azhar Ahamad Al-Tayyib, il 4 febbraio 2019). Ma dialogare non è facile, perché occorre che i dialoganti abbiano consapevolezza piena della propria identità culturale e religiosa e della propria appartenenza a una comunità. “L’islam si presenta con un’identità forte e molto affermata, una coscienza di sé molto marcata. Se dal canto suo l’Europa si presenta con una coscienza di sé molto debole, battendosi il petto per le battaglie che ha condotto, come le crociate e altri fatti della sua storia, non ci sarà alcuna possibilità di dialogo. In un dialogo la discussione deve avvenire su una base paritaria…” (Samir Khalil Samir, Islam e occidente. Le sfide della coabitazione, Lindau, p. 172) e nel rispetto reciproco. Lo spirito di collaborazione invocato da Papa Francesco esige che colui che professa una religione diversa e appartiene a un’altra cultura rispetto a quella della maggioranza del paese ospitante, se si vuole integrare, rispetti “gli usi e i costumi del paese ospitante, e soprattutto le sue leggi” (Samir Khalil Samir, ibidem, p. 167). Non potrà, per esempio, recitare le preghiere in mezzo alla strada quando lo desidera, come avviene in tutte le città d’Egitto. La stessa cosa si dica dei cristiani che vivono in Egitto: “Così i cristiani d’Egitto hanno saputo organizzare gli orari delle Messe domenicali (dato che in Egitto la domenica non è un giorno festivo) in funzione del modo di vivere della popolazione egiziana. Ma i musulmani rifiutano di adattarsi, e chiedono che sia la società ad adattarsi a loro… La comunità musulmana si impone ovunque si trovi, e gli europei non osano opporvisi. È evidente che più l’altro cede, più io proseguo” (Samir Khalil Samir, ibidem, pp. 168-169). Il problema è che “l’Europa sta perdendo la nozione della propria identità” mentre dovrebbe “riprendere coscienza che possiede valori straordinari” (ibidem) fondati sul cristianesimo, “indipendentemente dal fatto che oggi i suoi abitanti siano cristiano o meno” (cf ibidem, p.171). Queste affermazioni sono interessanti, soprattutto perché fatte da un gesuita arabo, Samir Khalil Samir, ovvero da una persona che può essere credibile mediatrice di pace, in quanto appartiene ad entrambe le culture, cristiana e musulmana, e, pertanto, ha piena competenza a parlare di entrambe. Per operare la pace, infatti, si richiede “la conoscenza reciproca come metodo e criterio” (Documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune), altrimenti ci si deve solo fidare del sentito dire, di slogan ripetitivi e insignificanti. S. Francesco, nonostante si trovasse tra due eserciti in guerra, osò avvicinarsi allo straniero con fermezza, fervore di spirito e dignità, senza perdere la propria identità. Cerchiamo di fare come S. Francesco: osiamo l’incontro, ascoltiamo il messaggio che l’altro porta con sé e facciamoci ascoltare da lui per arricchirci reciprocamente! Allora diventeremo profeti di pace e sapremo cogliere i segni della presenza dello Spirito che parla sempre, purché noi lo sappiamo ascoltare.
La decadenza del mito delle crociate: il Perdono di Assisi
S. Francesco fu profeta di pace, perché seppe cogliere i segni dello Spirito nel suo tempo, anticipando e favorendo la decadenza del mito delle crociate, attraverso la scelta dell’incontro col sultano nel 1219 e, ancor di più, con la richiesta accolta tre anni prima, nel 1216, da papa Onorio III, dell’indulgenza detta del “Perdono di Assisi” valida per il 2 agosto di ogni anno, cosicché in quel giorno tutti coloro che entrano nella chiesa di S. Maria della Porziuncola “confessati, pentiti e assolti dal sacerdote, vengano liberati dalla pena e dalla colpa in cielo e in terra dal giorno del Battesimo fino al giorno e all’ora della loro entrata nella suddetta chiesa” (FF 2706). In questo modo veniva meno lo scopo delle crociate: liberare il sepolcro di Cristo per consentire i pellegrinaggi in Terra Santa a scopo penitenziale e salvifico. Perché andare lontano, rischiando la morte, quando il perdono poteva essere ottenuto da tutti in patria gratuitamente (cosa straordinaria a quei tempi)? La decadenza del mito popolare delle crociate aprì la strada a una nuova mentalità secondo la quale, per ottenere il perdono dal Signore, è necessario un cammino interiore di penitenza e conversione che faccia risplendere in noi il volto di Cristo, l’uomo nuovo che ripone nella pace e nell’incontro ogni speranza di rigenerazione e di salvezza.
Note
(1) Lo storico Raoul Manselli dice che S. Francesco era accompagnato da Pietro Cattani (R. Manselli, San Francesco, Bulzoni, p.223).
(2) Bernardo il Tesoriere, trascrittore della cronaca di Ernoul tra il 1220 e il 1230, è l’unica fonte che non parla di violenza ai danni di S. Francesco e di frate Illuminato da parte dei sicari del sultano.
(3) Secondo Giacomo da Vitry, Francesco predicò per più giorni nel campo maomettano; ma aggiunge che questa predicazione non ebbe alcun risultato (cf FF 2212). Una fonte, detta la Storia di Eraclio, dice che il Santo si fermò a Damiata nell’esercito crociato, fino alla presa della città nel 1220. Poi si sarebbe fermato un pezzo in Siria prima di tornare al suo Paese (cf FF 2238). Raoul Manselli, basandosi sulla Seconda Vita del Celano, sostiene che il Santo sarebbe rimasto in Terra Santa almeno un anno, tra il 9 maggio 2018 e il 29 agosto 2019 (R. Manselli, ibidem, p. 227). Per Joergensen il Santo, prima di ritornare in patria, avrebbe fatto visita ai luoghi santi, tra cui Betlemme, di cui sarebbe rimasta un’eco nella celebrazione del Natale a Greccio dopo il suo ritorno in patria.
(4) Nei Fioretti troviamo un epilogo molto ottimistico dell’incontro, poiché in essi si dice che il sultano in fin di vita si fece battezzare da due frati inviati da S. Francesco secondo un accordo preso con lui prima del commiato definitivo (cf FF 1855). Quanto ci sia di storico in questa testimonianza, non è facile a dirsi, poiché i Fioretti sono infarciti, oltre che di notizie storiche, anche di altre fantasiose. È certo, però, che l’incontro con quest’“uomo diverso” non poté non lasciare un segno indelebile nell’animo del sultano
Lucia Baldo