Un abisso colmato

Negli Scritti di S. Francesco troviamo l’affermazione della realtà divina come lontanissima da lui: Dio Padre è altissimo, onnipotente, santissimo, grande, terribile, abita una luce inaccessibile, nessuno è degno di nominarlo… Ma tutto cambia quando il Santo parla di Cristo che non è pensato nella maestà del Pantocratore (come invece comunemente accadeva al suo tempo), bensì nell’umiltà dell’incarnazione che pone in primo piano la natura umana di Cristo. Quell’abisso, che sembrava incolmabile, tra Dio e il mondo è colmato dal Verbo incarnato per l’uomo e il Natale ci ricorda questa grandissima degnazione.

Le Biografie ci descrivono la sensibilità del Santo verso questa festa che, dopo di lui, acquista una centralità rispetto ad altre pur importanti come l’Epifania: “Al di sopra di tutte le altre solennità celebrava con ineffabile premura il Natale del Bambino Gesù, e chiamava festa delle feste il giorno in cui Dio, fatto piccolo infante, aveva succhiato ad un seno umano. Baciava con animo avido le immagini di quelle membra infantili, e la compassione del Bambino, riversandosi nel cuore, gli faceva anche balbettare parole di dolcezza alla maniera dei bambini. Questo nome era per lui dolce come un favo di miele in bocca.

Un giorno i frati discutevano assieme se rimaneva l’obbligo di non mangiare carne, dato che il Natale quell’anno cadeva in venerdì. Francesco rispose a frate Morico: «Tu pecchi, fratello, a chiamare venerdì il giorno in cui è nato per noi il Bambino.

Voglio che in un giorno come questo anche i muri mangino carne, e se questo non è possibile, almeno ne siano spalmati all’esterno” (FF 787).

 

Una svolta nell’arte

img67-2Una nuova forma artistica fu data alla natività, come ad altri soggetti biblici, “sotto l’influenza delle concezioni e dei sentimenti del francescanesimo” (H. Thode, Francesco d’Assisi e le origini dell’arte del Rinascimento in Italia, 1993, Roma, p.357). Le arti arrivarono a liberarsi dai vincoli del modello bizantino con un movimento molto lento, tant’è che nemmeno Nicola Pisano o Cimabue riuscirono a distruggere questo modello, ma si limitarono a conferirgli un vigore e uno spirito nuovi.

Invece “a Giotto e a Giovanni Pisano si deve il merito di aver trasposto nelle opere d’arte la nuova concezione religiosa, tutta umana e sensitiva, dei poeti e dei predicatori francescani” (ibidem, p.358).

Il lato profondamente e sentitamente umano di Cristo e della Vergine sono posti al centro dell’azione che dà risalto al rapporto tra madre e figlio. Nei pulpiti di Pisa e Pistoia di Giovanni Pisano è espresso l’atteggiamento della Vergine mentre alza il telo che ricopre il Bambino nella mangiatoia.

Nell’affresco di Giotto nella Chiesa inferiore di Assisi “la novità appare nella posa di Maria che tiene fra le braccia il Bambino e lo guarda amorevolmente. Taddeo Gaddi, nei suoi affreschi di S. Croce a Firenze, nella cappella Baroncelli, fa un passo avanti. Rappresenta Maria che stringe il Bambino al petto ed è seduta in una capanna, già presente in un affresco di Giotto. Giuseppe è seduto accanto a lei” (ibidem, p.261).

Passo dopo passo verso la fine del sec. XIV un nuovo progresso si manifesta nella concezione della scena:Maria viene rappresentata in ginocchio in adorazione del Bambino e anche Giuseppe si avvicina per adorarlo. L’unità della composizione si realizza pienamente quando anche i pastori sono rappresentati in preghiera.

 

L’azione esemplare

La Lettera ai Fedeli, 2° redazione, di S. Francesco è un’opera d’arte in cui troviamo espresse le tappe fondamentali della vita del Verbo incarnato: la nascita nella povertà e la morte nella crocifissione. “L’altissimo Padre celeste, per mezzo del santo suo angeloGabriele annunciò questoVerbo del Padre, così degno, così santo e glorioso, nel grembo della santa e gloriosaVergineMaria, e dal grembo di lei ricevette la vera carne della nostra umanità e fragilità. Egli essendo ricco più di ogni altra cosa, volle tuttavia scegliere insieme alla sua madre beatissima la povertà… E la volontà del Padre fu tale che il suo figlio offrisse se stesso cruentamente come sacrificio e come vittima sull’altare… lasciando a noi l’esempio perché ne seguiamo le orme (cfr.1 Pt 2,21)” (FF 181-182.184). img69 (5)

L’azione esemplare di Cristo è stata il senso della religiosità di S. Francesco che ha speso la sua vita studiando le azioni esemplari di Cristo povero e crocifisso. Continuando ad esercitarsi in esse, ha convertito la sua affettività, ha imparato la purezza di cuore ed è riuscito ad arrivare allo stato di beatitudine o santità come ci testimoniano le parole nella Lettera ai Fedeli, 1° redazione : “Oh, come è glorioso, santo e grande avere in cielo un Padre! Oh, come è santo, fonte di consolazione, bello e ammirabile avere un tale Sposo! Oh, come è santo e come è caro, piacevole, umile, pacifico, dolce, amabile e desiderabile sopra ogni cosa avere un tale fratello e un tale figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, il quale offrì la sua vita (cf. Gv. 10,15) per le sue pecore…” (FF 178/3).

 

“L’attività che santifica” (GE 25)

A proposito della santità anche il papa nell’Esortazione Apostolica “Gaudete et Exultate” sottolinea, in vari modi e a più riprese, l’importanza di fare “sforzi” che “ci identifichino sempre più con Gesù Cristo” (GE 28).

La persona umana, che è in cammino, deve rinnovarsi e trasformarsi continuamente. Nella ricerca di superare la nostra espressività in una nuova espressività che sia manifestazione di una crescita verso la santità, le azioni esemplari della vita di Cristo forniscono un modello; la sapienza divina costituisce una guida per le nostre azioni (cfr. Sap 9,11) affinché, nel continuo esercizio di atti compiuti seguendo le orme di Cristo, possiamo costruire in noi l’uomo nuovo, il santo.

Per salvaguardarci dall’attivismo ossia da un agire che, pur essendo a fin di bene, non ci conforma a Cristo, il papa ritiene sia necessario un “dialogo sincero con Dio” e “guardare in faccia la verità di noi stessi, per lasciarla invadere dal Signore” (GE 29). “Siamo chiamati a vivere la contemplazione anche in mezzo all’azione e ci santifichiamo nell’esercizio responsabile e generoso della nostra missione” (GE 26).

 

Graziella Baldo