La Lettera Apostolica “Alma parens” di Paolo VI, scritta il 14 luglio del 1966 in occasione del VII centenario della nascita di Giovanni Duns Scoto, la cui dottrina fu approvata in quell’occasione dal pontefice, allude a una fiorente scuola teologica dell’Ordine francescano, affermatasi nel tempo ed espressa dalla presenza di più di cinquanta maestri francescani: da S. Antonio da Padova (Doctor Evangelicus) a Scoto, vissuto a cavallo tra il XIII e il XIV secolo (Doctor Subtilis e Marianus). Ѐ un fatto che dal 1890 in poi l’attività dei centri di studi critici è stata rivolta a portare alla luce questi scritti dei maestri francescani in edizione critica, segno dell’alta considerazione in cui era tenuta la Scuola francescana.
I primi discepoli di S. Francesco, detti “spirituali” o “esperienziali”, in realtà non volevano saperne di dedicarsi allo studio teologico, ma, ponendo in primo piano il fare, ritenevano di essere fedeli allo spirito del Santo fondatore che afferma: “Un uomo è tanto sapiente quanto opera…” (FF 1651). Tuttavia, nonostante le proteste, si sviluppò nel tempo una forte scuola teologica francescana, perché entrarono nell’Ordine uomini dottissimi di vocazione adulta, come Alessandro d’Hales e il suo discepolo S. Bonaventura (Doctor Seraphicus), Ruggero Bacone ed altri che coinvolsero le Università di Parigi e di Oxford nella visione francescana della vita.
Nella lettera scritta nel 1242 da S. Bonaventura a un “maestro innominato” di Parigi che voleva entrare nell’Ordine, ma dubitava della fedeltà dei frati a S. Francesco riguardo alla povertà, al lavoro e allo studio (per questo la lettera è intitolata “Epistula de tribus quaestionibus”), l’autore della lettera fa notare che bisogna distinguere, poiché vi è studio e studio. Vi è, infatti, uno studio conforme allo spirito evangelico e uno studio animato dalla “curiosità” mondana che ricerca la scienza per la scienza, il conoscere per il conoscere. Questo tipo di studio è rifiutato e “detestato” anche da S. Bonaventura perché non salva. Nella lettera al maestro innominato il Dottore Serafico afferma anche che, poiché la Regola comanda ai frati di predicare, se i frati non vogliono “predicare favole, ma le parole divine che non possono conoscere se non si legge né si possono leggere se non si hanno degli scritti”, per attuare la perfezione richiesta dalla Regola debbono “avere libri e insieme predicare”. Non per nulla S. Francesco ha rispetto e venerazione verso i dottori della Sacra Scrittura, “purché, però, sull’esempio di Cristo di cui si legge non tanto che ha studiato, quanto che ha pregato, non trascurino di dedicarsi all’orazione e purché studino non tanto per sapere come devono parlare, quanto per mettere in pratica le cose apprese, e, solo quando le hanno messe in pratica, le propongano agli altri” (FF 1188).
Se l’ideale francescano consiste nella professione pratica del Vangelo, a chi spetta maggiormente il compito di predicare il Vangelo se non a chi lo professa praticamente e lo serve? Ѐ dunque da disprezzare il frate vanaglorioso che aspira alle cattedre per avere prestigio, ma è da lodare il frate che assume l’ufficio di maestro per insegnare il Vangelo di Cristo.
Possiamo, perciò, affermare che lo studio teologico non deve rivestire per il francescano il carattere di una “curiosità scientifica”, ma deve assumere un ruolo sapienziale che prevede la pratica del Vangelo, cioè è finalizzato ad un’interiorità di vita evangelica da realizzarsi nell’esistere e nell’annuncio agli altri. Il fatto poi che i primi frati fossero illetterati non deve essere inteso, per S. Bonaventura, come un ostacolo ad entrare nell’Ordine, come pensava il maestro innominato della lettera citata, poiché anche la Chiesa cominciò con semplici pescatori e pervenne a dottori chiarissimi.
Pertanto sia la Chiesa delle origini sia il movimento di rinnovamento cristiano nato dal pensiero profetico di S. Francesco, sono voluti da Cristo e non dalla prudenza degli uomini. In questo modo S. Bonaventura afferma l’importanza della prassi sia per gli “esperienziali” sia per i “concettuali”, poiché anche a questi ultimi è richiesta la tensione tra pratica e teoria per testimoniare il Vangelo con lo studio.
Osservando il corso del pensiero francescano nella storia possiamo affermare che esso è cresciuto nella tensione dialettica tra questi due principi: “l’uomo sa in quanto opera” (esperienziali) e “l’uomo opera in quanto sa” (concettuali). Quando viene meno questa dialettica, il pensiero francescano decade e perde vita. Riguardo a S. Francesco, la scelta “esperienziale” da lui compiuta ha il solo scopo di seguire la sua vocazione specifica che cresce nella “sterilità” feconda del suo rapporto con Dio, fatto di Quaresime, notti di veglia in preghiera, colloqui privati col Signore nelle grotte…
La celebre espressione biblica – “La ricca di figli è sfiorita, la sterile ha partorito sette volte” (1Sam 2,5) – per S. Francesco sta a indicare “il frate poverello che non ha nella Chiesa l’ufficio di generare figli. Costui nel giorno del Giudizio, partorirà molti figli, nel senso che in quel giorno, il Giudice ascriverà a sua gloria quelli che egli ora converte con le sue preghiere nascoste” (FF 1137).
Questa visione della sterilità presente in S. Francesco deve indurci a non banalizzare il suo cammino spirituale che tocca vette difficilmente raggiungibili ai più, segno di un’elezione particolare che fa dire al Santo: “Io ho fatto la mia parte; la vostra Cristo ve la insegni” (FF 1239).