Mauro-Magatti-Università-Cattolica-21. Dopo mille anni di gestazione, raggiunto il suo apogeo, la cristianità ha partorito l’Umanesimo (italiano): mentre il vincolo medioevale del singolo con il tutto si allentava e l’individuo cominciava a reggersi fiducioso in se stesso, tutto si manteneva in un certo equilibrio, dentro una preziosa armonia. Da allora, la modernità ha fatto molta strada. E per quanto controverso possa essere stato il suo cammino, non dovremmo mai smettere di riflettere sul fatto che l’umanesimo è figlio della cristianità: l’idea di un uomo libero e capace nasce nel cuore dell’Europa cristiana.

2. Nel 1400 Firenze era la punta più avanzata dell’Europa. La cristianità – benché già orfana delle Chiese d’Oriente – ne definiva ancora la cornice religiosa e culturale.
Oggi l’Italia viene da una lunga crisi. Una crisi non solo economica e che non è cominciata nel 2008. Denatalità, elevati livelli di indebitamento, pubblico altissima disoccupazione giovanile dicono di una società che sembra essere diventata incapace di guardare con fiducia il futuro. In queste condizioni, ritrovarsi proprio a Firenze per parlare del tema “In Gesù Cristo un nuovo umanesimo” ci pone in una posizione spinosa: a che titolo possiamo interrogarci sul nuovo umanesimo? Non si tratta di un compito sproporzionato rispetto all’Italia di oggi?

3. La stagione che abbiamo alle spalle, sospingendo la modernità verso le sue più estreme conseguenze, ha introdotto livelli tecnologici, istituzionali, organizzativi, culturali, cognitivi più esigenti. Rispetto a questo salto storico, si potrebbe dire che l’Italia non è ancora riuscita a trovare il modo di “stare al mondo” nell’epoca della globalizzazione. In questo senso, la crisi è crisi di identità. È come se il Paese non fosse riuscito a rapportarsi ai mutamenti di fine secolo. Faticosamente si sta cercando di risalire la china. Ma siamo ancora lontani dall’aver trovato la risposta, anche perché non si tratta semplicemente di rimetterci a correre. Correre verso dove, poi, e per che cosa? In realtà, al fondo mi pare affiori la domanda che interpella l’Italia, e con essa la Chiesa italiana: quale contributo il nostro Paese, la nostra cultura potrà mai dare al mondo di oggi?

4. Se poi alziamo lo sguardo oltre le frontiere, vediamo altre nubi addensarsi. 2 Basta guardare a un’Europa che si imbarazza nel riconoscere le sue radici cristiane e che, stentando a essere qualcosa di più di un apparato tecnoburocratico, finisce per schiacciare i più deboli. O al Mediterraneo, diventato la frontiera che conta più morti al mondo. O al disordine mondiale, dove si moltiplicano i focolai di guerra e dove domina una tecno-economia che, con troppa disinvoltura, “gioca” con la finanza e “mette le mani” sulla vita. Dinnanzi a questi fenomeni, che arrivano fin dentro la vita di ciascuno, serpeggia un grande disorientamento. Sotto la superficie gaudente, si nasconde una diffusa sofferenza umana.
Per le nostre società, il rischio è quello di finire intrappolate nella oscillazione tra due polarità solo apparentemente contraddittorie: – Dis-umanità. Secondo quella che Papa Francesco chiama la “logica dello scarto”. Ci sono troppi uomini e donne che, dimenticati, abbandonati, messi alla porta, si vedono privati della loro dignità. Le periferie esistenziali (quelle della solitudine, della sofferenza, della emarginazione, della lontananza da Dio) sono dappertutto: ai bordi delle nostre città, ma anche dentro i nostri condomini. Per diventare periferici, e a rischio di abbandono, basta non essere all’altezza delle performance richieste dal modello di vita prevalente. Le disuguaglianze sono troppo alte. La povertà, non solo materiale, si estende.
Trans-umanità. Si fa largo l’idea paradossale, perseguita pervicacemente da potenti interessi, secondo cui ‘il’ limite che va forzato è l’essere umano in quanto tale. Siamo davanti ad una nuova ideologia: quella della “perfezione” di un essere umano potenziato in tutte le sue facoltà. Al di là di qualsiasi limite. Ma, nel trans-umano, non c’è più “mondo” perché tutto è prodotto e, pertanto, manipolabile. La supponente superficialità con cui viene trattata una questione tanto delicata come quella del gender è sintomo della prepotenza da cui può essere affetto l’uomo tecnicizzato.
Al di là della crisi italiana, si tratta di lavorare con tutti gli uomini di buona volontà per trovare una via per evitare entrambe queste involuzioni.

5. Migliorando le condizioni materiali di vita di milioni di persone, rafforzando la democrazia, ampliando gli spazi di libertà personale, l’umanesimo moderno ha, nel corso del tempo, segnato importanti successi. Successi che vanno riconosciuti e apprezzati.
Eppure, mai come oggi possiamo vedere che, volendo costruire tutto a misura dell’uomo, ci ritroviamo in un mondo dove sembra prevalere la logica della potenza, dell’efficienza, dell’impersonalità. Con una libertà che rischia di perdersi nella fiera delle possibilità.
Un mondo in cui c’è “troppo uomo” finisce per non avere più posto per l’essere umano.
È questo il paradosso che sollecita oggi la Chiesa italiana a essere in prima linea nella ricerca di un nuovo umanesimo. Senza saccenza, ma con cordialità verso tutti e passione per l’umanità, nello spirito del Concilio Vaticano II che si chiudeva proprio 50anni fa. Con le parole usate allora da Paolo VI (Allocuzione dell’ultima sessione pubblica 7/12/1965): “l’umanesimo laico e profano alla fine è apparso nella sua terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo si è incontrata con la religione dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto (…) Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (…) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo”.

6. Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti. Le spinte, mai sopite, verso un “umanesimo esclusivo” – viziato da quello che Papa Francesco chiama “eccesso antropocentrico” – premono oggi per un “individualismo radicalizzato”: la società che alcuni immaginano dovrebbe essere fatta di atomi isolati, perfettamente autonomi e funzionanti, organizzati da sistemi estesi e performanti. Atomi che si incontrano occasionalmente e provvisoriamente per un godimento reciproco, nell’illusione di colmare il vuoto di una esistenza ricca di beni materiali ma povera di senso. Un mondo ben poco desiderabile!
Si tratta di una prospettiva tanto problematica quanto irrealistica: nella sua piegatura soggettivistica e materialistica, la pur apprezzabile affermazione della libertà individuale finisce per costruire un orizzonte asfittico nel quale ci si sente soffocare. Si corre molto, forse si “gode” (nell’istante singolo) di più. Ma si è più soli e svuotati di significato.

7. A cavallo del XX secolo, con la globalizzazione, l’umanità ha fatto un salto in avanti aumentando la propria integrazione. Per far questo, abbiamo però dovuto costruire sistemi sempre più grandi ed efficienti. Divenuto capace di scomporre e ridurre tutto in frammenti, l’uomo contemporaneo ha svelato segreti che si pensavano inaccessibili. E, soprattutto, ha enormemente accresciuto la sua capacità di manipolazione della realtà. Ma lungo questa via – che, come dice Benedetto XVI, comporta il progressivo restringimento della ragione – si va verso una crescente a-strazione (‘astrarre’ etimologicamente significa ‘distaccare’,’separare’): tutto viene arbitrariamente separato da parte di un uomo che si sente di poter fare tutto. Dimenticando, anzi in qualche caso addirittura negando, la natura costitutivamente relazionale della realtà.
Con la pretesa di costruire un mondo piatto, privo identità religiose e culturali, indifferente rispetto alle domande di senso e di appartenenza, semplice palcoscenico per le infinite ed equivalenti possibilità d’azione individuali. Non più solo l’uomo al posto di Dio, ma persino la negazione del posto di Dio. Ma così, mentre l’esperienza, schiacciata sull’istante e privata del giudizio, é ridotta a mero soggettivismo, ci mettiamo nelle mani di sistemi astratti e impersonali.
Se ci pensiamo bene, la nostra stessa vita rischia di diventare un’astrazione – sempre più frammentata e separata da ciò che la circonda; persino dagli affetti più intimi. Per il modo in cui le nostre giornate sono organizzate, l’esistenza di ciascuno è costantemente a rischio di andare in frantumi o perdere, un po’ alla volta, di consistenza. Mentre fantastichiamo di poter fare tutto, finiamo per diventare incapaci di affezione e di azione.
Una condizione che produce aggiustamenti contraddittori: da una parte, “l’epidemia dell’immaginario” – cioè l’esplosione di una immaginazione rigogliosa che rifugge però il confronto con la realtà, finendo per coesistere con una esistenza povera, secca e disincantata; dall’altro, la “reazione fondamentalista” (o populista) – risposta “isterica” alla frammentazione mediante l’attaccamento a semplificazioni rigide e perciò stesso rancorose e violente.

8. Se si chiude il cielo, e l’umanesimo diventa esclusivo, all’uomo non rimane che il movimento ossessivo di una conoscenza sempre più analitica allo scopo di produrre potenza e accelerazione. La differenza “per qualità” sparisce a tutto vantaggio della moltiplicazione “per quantità”. Dove anche la persona è ridotta a numero.
Come si è visto con gli eccessi finanziari, la tirannia della tecno-economia è un esito problematico dell’umanesimo esclusivo.
Se l’universale viene appiattito sull’astratto senza volto, senza realtà né apertura, la vicenda moderna rischia di virare verso un esito insoddisfacente. Perché l’astratto, diversamente dall’universale, è una generalizzazione senza vita, un esercizio da cui derivano tutt’al più una procedura o una algida certezza. Mai un senso. O una affezione. Per questo esso, alla fine, “manca” la vita. Non è forse vero che la solitudine è una condizione sempre più diffusa e che, ingolfati da mille cose, sembra che non abbiamo mai tempo per niente e per nessuno?
L’abbinamento sempre più stringente tra tecnica, mercato, procedure (il regno dell’impersonale) e un Io impoverito che perde “saper fare” e “saper vivere” è una morsa dalla quale guardarci. Tanto più che chi non sta (perché non vuole o non riesce) al gioco, è fuori. O meglio: viene buttato fuori.

9. L’Italia ha stentato a fare il salto richiesto dalla globalizzazione.  Da una parte, la nostra idea di persona – fatta di relazioni, bellezza, luoghi, volti – fatica ad adattarsi a questo destino di astrazione. Ma, d’altra parte, se siamo onesti, dobbiamo ammettere che troppe volte ci siamo accontentati di un parlare astratto: vuoto, retorico, dottrinale. Sovente, poi, solo una copertura di quel particulare dentro cui prosperano le tante forme regressive che come italiani conosciamo bene (localismi, corporativismi, familismi, corruzioni, mafiosita). Con élites, politiche, economiche, sociali e, ahimè, qualche volta persino religiose, che, invece di accompagnare le loro comunità verso il mondo valorizzando le energie più vitali e creative, si sono limitate a estrarre risorse e mantenere lo status quo.

10. Guardiamoci attorno. Nelle nostre città, nelle nostre parrocchie, nelle nostre famiglie: l’umano è resiliente. Non solo resiste ad un destino di astrazione e frammentazione, ma vi risponde creativamente.
Pensando ai tanti uomini e alle tante donne che silenziosamente scelgono di fare questa fatica, il futuro può ancora essere pensato con speranza. Sono ancora tanti – anzi sono forse addirittura la maggioranza, dentro e fuori la Chiesa. – coloro che, senza disprezzare, ma anzi reinterpretando i successi della tecnica e della economia, continuano a custodire la tenerezza e il calore dell’umano. Rifiutandosi, nel contempo, di richiudersi nel particulare. Convinti che tutto quello che contribuisce alla riconciliazione tra gli uomini, tra loro e con il creato, va nel senso della salvezza.
Al di là delle tante brutture che in qualche momento sembrano addirittura soffocarci, la bellezza continua a risorgere attorno a noi: nelle nostre città e nei nostri paesaggi; nelle imprese che sperimentano nuove soluzioni intelligenti e coinvolgenti, unendo tecnologia e attenzione alle persone; nelle scuole che diventano luoghi aperti, integrando chi fa più fatica; nei funzionari pubblici che si oppongono alla corruzione e alla criminalità; nelle famiglie che continuano ad essere grembo della vita; nel lavoro di cura e ricucitura nelle periferie, con i migranti, nelle carceri, negli ospedali, con i giovani; nelle parrocchie che sanno essere comunità vive…
C’è ancora tanta umanità resiliente, felicemente dedicata all’umanizzazione dell’uomo, che va ascoltata, amata, autorizzata, accompagnata.

11. Che cosa ci dice questa resilienza?
In primo luogo che, nonostante tutto, c’è una domanda che non si satura. L’umanesimo esclusivo, per quanto si sforzi, non basta a se stesso. Né può bastare il particulare ottuso. Al di là delle pretese del tempo che viviamo di riempire tutto lo spazio attorno a e in noi, con la presunzione di colmare ogni attesa e desiderio, l’uomo contemporaneo si sente ancora interrogato da una mancanza. Da un vuoto creativo. Da un’essenziale inquietudine che è anche un’apertura. Che non lo abbandona e lo rimette in movimento. Lo dice bene il poeta fiorentino  Mario Luzi: “Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che ad un tratto ne sei pieno?”
Non “l’uomo misura di tutte le cose”. Ma “la misura dell’uomo non sta in nessuna misura”. Semplicemente perché la mancanza di cui siamo fatti – che non è semplice carenza da colmare, ma desiderio di ulteriorità e capacità di eccedenza – non possiamo riempirla da soli. Per questo occorre, oggi più che mai, essere capaci di prestare orecchio alle inquietudini non dette del cuore, alle speranze frustrate di riscatto, alle domande inascoltate di senso.
Ecco, di questo possiamo essere sicuri: quel “senso religioso” di cui parlava Paolo VI continua a rinascere dallo stupore, dalla bellezza, qualche volta dal trauma, altre volte dalla grazia. Da una realtà che è altro e oltre noi, che ci interpella rompendo il nostro isolamento.
In secondo luogo, la resilienza ci dice che, contro ogni aspettativa, il volto di altri – che diventa ‘tu’ – continua ad aprire il cuore di molti. Che non hanno paura a mettere in gioco la propria vita esprimendo la loro affezione verso il povero, il malato, il profugo, l’abbandonato. La vita.
È vero: l’altro ci scomoda sempre. Perché il suo esserci apre una ferita-feritoia alla nostra supposta autosufficienza. Eppure, la logica moderna dell’‘immunitas’ – tenere l’altro a debita distanza – rimane insoddisfacente. Socialmente – perché non sa ricreare le ragioni dello stare insieme – ed esistenzialmente – perché l’uomo non può vivere senza affezionarsi. È questo ciò che testimoniano molte delle storie raccolte nel sito Firenze 2015: ancora oggi, l’umano si può riscoprire pienamente solo nella sua disponibilità ad aprirsi all’incontro con l’altro. In un gesto accogliente di libertà e fraternità.

12. Se dunque prestiamo ascolto non a ciò che è gridato, ma a ciò che è sussurrato, possiamo capire: ciò che ancora manca all’umanesimo del nostro tempo, e di cui paghiamo le conseguenze, è ammettere che la misura dell’uomo non sta in nessuna misura.
La sua misura non si può colmare con nessuna potenza.
Non sta in nessun consumo.
In nessuna tecnologia.
In nessun potere.
In nessuna procedura.
Al di là di tutta la sua efficienza tecno-economica, l’uomo contemporaneo rimane quello che è sempre stato: mancanza (a essere) e desiderio d’altri.
Il granello che può mettere in discussione – e di fatto già mette in crisi – la deriva di astrazione della contemporaneità è il fatto che, nonostante tutto, l’umano continua ancora a fare capolino.

13. In questo convegno non siamo chiamati a formulare una teoria del nuovo umanesimo.
Siamo qui piuttosto per incontrarci e parlarci, riconoscendo che è proprio dando nome a questa mancanza e a questo desiderio – che condividiamo con tutti gli esseri umani – che possiamo rompere la logica dell’astrazione – che ci intrappola fra disumano e transumano. È possibile vivere l’altezza del desiderio che ci caratterizza come esseri umani senza distruggere il mondo, la vita, noi stessi?

14. Etimologicamente ‘concretezza’ significa ‘cum crescere’,‘crescere insieme’. Dunque, essa ha a che fare con il rimettere insieme – cioè, in dialogo – ciò che abbiamo imparato a separare. In una visione integrale e integrante della realtà.
Ne va dell’umano che, come scrive R. Guardini, é “un concreto vivente”. Concretezza è il contrario di ‘separazione’ (astrazione). Non si tratta infatti di rifiutare l’astrazione che costituisce uno degli aspetti precipui dell’umano nella sua conoscenza del reale.
Si tratta piuttosto di aprirci alla logica della concretezza, intesa come pratica di affezione (amore) aperta alla trascendenza. Così da riqualificare il rapporto tra la nostra persona e la realtà che ci circonda, ricomponendo ciò che é oggi frammentato (l’esistenza, la famiglia, la città, il lavoro, il senso) e recuperando la relazione tra ragione e affezione, tra particolare e universale. Da qui derivano conseguenze molto “concrete”.
Un’economia astratta è un’economia puramente finanziaria, dimentica del fatto che il suo stesso futuro si fonda sul lavoro, l’educazione, lo sviluppo sociale.
Una politica astratta è quella che riduce i cittadini a elettori da cui estrarre un consenso, dimenticandosi di essere al servizio della comunità. Soprattutto di chi ne ha più bisogno.
Una città astratta è quella pensata per le automobili, i telefonini, gli uffici, e non per le persone, le famiglie, gli anziani, i bambini, i poveri. Dove non c’è spazio per la natura.

15. Nella misura in cui rimane aperta alla vita e alle sue istanze, la concretezza – al contrario del particolare chiuso, che è mortifero – è generativa. Nel senso che, sentendosene parte, la ama e la accompagna. Nella serena consapevolezza che la vita va oltre ciascuno di noi.
Una generatività che si esprime nei movimenti del desiderare, mettere al mondo (non solo in senso biologico), prendersi cura, lasciare andare. Viene da pensare che sia questa la via per riaprire l’orizzonte chiuso e disumanizzante in cui rischia di finire l’umanesimo esclusivo: un nuovo umanesimo della concretezza che, guardando a Gesù Cristo, torni a essere capace di quella postura relazionale, aperta, dinamica, affettiva, generativa, verso cui ci sospinge  continuamente Papa Francesco con l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium e l’enciclica Laudato sii.

16. Essere concreti significa non disgiungere i mezzi e le possibilità dalle obbligazioni e responsabilità verso la rete di rapporti in cui siamo immersi e di cui siamo fatti. Nella consapevolezza che ‘tutto è connesso’: l’ essere umano con gli altri esseri viventi, la natura, il cosmo, Dio.
Significa saper rimanere attaccati alla realtà particolare senza perdere la prospettiva dell’universale. Perché la vita sta, in un certo senso, sempre dentro e fuori da se stessa: nel qui-e-ora e nell’apertura, nell’aspirazione, nell’attesa, nella domanda di giustizia insoddisfatta. Non c’è solo un agire concreto. Ci sono anche uno spirito e un intelletto ‘concreti’.
Essere concreti significa non dimenticare che, al di là degli apparati funzionali, si può crescere solo con le persone e per le persone. Tutto ciò che di grande gli esseri umani possono fare, finisce per diventare disumano se nega la fragilità della nostra comune esistenza. Una crescita che, ridotta a mero aumento quantitativo e a innovazione compulsiva, comporta la distruzione della famiglia, della comunità, della natura va considerata inadeguata.
La “via relazionale” è l’unica in grado di allargare la nostra ragione, al di là della tecnica e del calcolo economico. Di liberarci dalla prigione dell’ioautoreferenziale, dalle catene dei nostri sistemi ad esso speculari e da esso rafforzati. Restituendoci la capacità di affezionarci creativamente. E per questa via l’umanità che rischiamo di perdere.

17. Giunti a questo punto possiamo fare un passo più in là: non è forse proprio questa postura e capacità relazionale intrisa di affezione e aperta all’ulteriorità ciò che costituisce il tratto più tipico del nostro essere italiani? Non è forse proprio questo fondo relazionale aperto alla bellezza, all’infinito, all’eccedenza, all’universale, l’origine di ciò che gli stranieri ci invidiano? E non è forse proprio questa concretezza generativa il tratto che distingue l’Italia nel mondo? Il ‘Made in Italy’, il volontariato, le cento città, l’artigianato, l’arte, la cura e la carità, le tante forme di sussidiarieta ed economia civile, la famiglia sono le espressioni, già presenti nella realtà, di quell'”umanesimo della concretezza” che è in qualche modo una nostra prerogativa, una preziosa eredità che possiamo contribuire a rendere viva per riconsegnarla, arricchita, a chi viene dopo di noi.
Se l’Italia, non è una mera ‘espressione geografica’, è solo perché da secoli essa ha saputo esprimere, dal basso, questa straordinaria vitalità plurale che le proviene da una concezione integrale (cioè “cattolica”) della persona. Da qui forse si può delineare una vocazione per questo Paese. A condizione che siamo disposti a combattere l’astrazione dottrinale e il particolare regressivo.

18. Dunque, questo è un tempo propizio. Anche per l’Italia. Apocalittico nel senso biblico. Un tempo di disvelamento e scelta. L’Italia è chiamata a uscire dalla sua crisi di identità.
Il nostro contributo – come Chiesa italiana e come cittadini italiani – a un “nuovo umanesimo” può derivare da qui: dal creare un terreno favorevole alla fioritura di un umanesimo della concretezza che, facendoci riscoprire l’infinito di Dio attraverso la cura della carne dell’altro, sia paradigma per un vero rilancio del nostro Paese e farmakon contro gli esiti del trans-umano e del disumano.

19. Non si batte l’astrazione con un’astrazione. Ciò che serve è piuttosto un metodo – quello dell’ex-odos (un esodo, un uscire) e del syn-odos (un sinodo, un camminare insieme) – che permetta di attraversare, abitandole, la mancanza (a essere) e il desiderio di altri che continuano a interpellare l’uomo contemporaneo. Così da risvegliare, strada facendo, la tensione creativa tra uomo concreto e umanità universale.
Solo se guadagnato mediante un cammino che si misura con la realtà, in una dinamica feconda con il concreto, l’universale – di cui il nuovo umanesimo ha bisogno – potrà sfuggire l’astratto, diventando capace di scoprire e valorizzare tratti dell’umano più ricchi e profondi.

20. Come nell’icona biblica, ciò che serve è dunque un popolo (la Chiesa) che desideri camminare e, pur se nel deserto, sia capace di confidare nella terra promessa.
Capace di un movimento che, animato dalla speranza, esprima la pazienza del tempo e la fedeltà della promessa.
Disposta ad immaginare, tanto per se stessa quanto per la società italiana, non una legge – fosse anche una dottrina esauriente – ma “grazia e verità”, cioè un dinamismo originario capace di aprire spazi di incontro tra fede e storia, ragione e vita, amore e verità.
Non un discorso astratto o intellettuale. Un giudizio sul mondo. Ma concrete esperienze di popolo – diffuse e plurali – capaci persino di tradursi in nuove “esperienze istituenti” – cioè forme storiche concrete – per ricombinare ciò che oggi è diviso: famiglia e lavoro; valore e comunità; tecnologia e senso.

21. È in questa prospettiva che diventa possibile, come Chiesa prima e come popolo italiano poi, ripensare il nostro modo di stare tra gli uomini oggi. Per la Chiesa si tratta di rimettersi in cammino (esodo), accompagnando (sinodo) – come una fiaccola – la società italiana verso la riscoperta della sua vocazione più profonda – che accomuna ciò che di eccellente c’è nella sua storia – che tanto serve all’umano di oggi in ogni continente: la costitutiva relazionalità della vita quale origine di un dinamismo fecondo, luogo teologico e storico di  una mancanza desiderante ed eccedente, attraversata ma mai colmata, in tensione tra il concreto e l’universale.
Nel riconoscere i germi di bene, dentro e fuori la Chiesa, la mancanza e il desiderio che l’uomo contemporaneo vive come carenza o inquietudine potranno tramutarsi in invocazione, attesa, intuizione di un Regno che sempre viene e ci oltrepassa. Così da trasformare il vuoto, in cui tutto rischia di venire risucchiato, in grembo di novità e di pienezza.
Ma perché ciò accada, serve una Chiesa ardente, coraggiosa, povera. Una Chiesa in cammino che si sa popolo e vicina al popolo, che sa tornare a pensarsi prima di tutto in fraternità; rete ricca e plurale fatta di territori, parrocchie, associazioni, famiglie, persone.
Una Chiesa ‘comunione di comunità’. Che sa ascoltarsi, raccontarsi, accompagnarsi. In grado di capire che il nuovo ambiente digitale, è un’occasione straordinaria per rendere concreta la sua indole sinodale, dando il senso del cammino comune, in una ricerca circolare e plurale, capace di usare linguaggi diversi. Indispensabili per coinvolgere i giovani e accogliere il loro irrinunciabile contributo.
Una Chiesa che guarda con simpatia ogni uomo, e in modo particolare chi è “scartato”, e che si fida dei suoi figli. E che si fa, per questo, madre generativa, disposta a “dare la vita”- nel duplice senso del “dare vita’, cioè far nascere, generare, rigenerare, e del ‘donare (dedicare) la propria vita’. È da qui che possono rinascere la speranza, lo sviluppo, il futuro: dal vedere che il più grande si fa davvero servitore del più piccolo, abilitandolo e autorizzandolo al futuro (come suggerisce il significato autentico del termine ‘autorità’).
Una Chiesa capace di quel “movimento impossibile” che questo nostro tempo richiede: “attraversare abitando” le due frontiere che, al di là ogni tecnica, sistema, organizzazione, continuano a interpellare l’uomo contemporaneo: la mancanza (a essere) e il desiderio di altri.

22. (Prima frontiera) Attraversare abitando la mancanza, non solo come inquietudine, ma anche come mistero e grazia. E dunque fede. L’umanesimo della concretezza non è perdersi nel particolare, quale ritorno a un concreto ottuso, chiuso, statico, in una sterile postura difensiva.
È, piuttosto, custodia della trascendenza, come condizione per tenere insieme la mancanza con la pienezza, il limite con l’eccedenza, la realtà particolare con la sua proiezione universale.
In una parola, trasfigurare.
L’Italia non è l’Italia se perde l’alfabeto dell’esperienza della fede (come bellezza, dono, incontro, salvezza). Esperienza che si forma solo nella pratica personale e collettiva della preghiera che, come diceva San Tommaso, “rende giustizia alle proporzioni dell’essere, conserva il ricordo del rapporto al divino, dà  slancio al desiderio del cuore umano”. Una preghiera che è parola, liturgia, sacramento, ma anche, e prima ancora, capacità di silenzio.
È questa una grande responsabilità della Chiesa nella sfera pubblica contemporanea: prima e più che la esibizione di certezze granitiche, prima e più che la partecipazione alla discussione collettiva, siamo interpellati a tenere vivo nella città il fuoco della preghiera come capacità di inabitare la propria solitudine, di cimentarsi con gli orizzonti ultimi dell’esistenza, di riflettere su di sé davanti al mistero della vita. Cioè, di ascoltare: come atto originario e distintivo del credere, che rifugge le false certezze dell’idolatria per accettare di camminare seguendo la voce che chiama. Con una presenza discreta ma aperta, riconoscibile e profonda, in grado di immettere quel movimento eccedente che è essenziale per bucare l’orizzonte chiuso dell’umanesimo esclusivo.
La parola (annunciare) di cui il nostro tempo ha fame e sete non è quella del dogmatismo astratto, gelido, distaccato. Nè tecno-economico né religioso. Ciò di cui ha bisogno l’uomo contemporaneo é invece una parola calda e piena di misericordia: perché solo cosi la vita dell’ultimo dei perduti – cioè di ognuno di noi – può essere colmata di amore. La parola-racconto del testimone che non parla di sé, ma che non può far altro che cercare di-dire-l’ascolto; la parola-mito che non è una leggenda, ma rapporto vivo con il mistero, perché dice l’irriducibilità dell’umano rispetto ad ogni categorizzazione; la parola-liturgia capace, quando è davvero “azione di popolo”, di “rilegare”, senza dissolverla, la libertà della persona.
Nel tempo della tecno-economia, non ci sarà nessun nuovo umanesimo senza una nuova spiritualità che sola può rinnovare, ri-animare riannodare le nostre vite e le nostre comunità.
Ed è su queste basi che anche il dialogo con i nuovi cittadini di altre religioni e confessioni potrà essere proficuamente intessuto.

23. (seconda frontiera) Attraversare abitando l’interpellazione dell’altro, nella sua umanità. E dunque incontro e “grazia”(charis). Mai come un questo tempo, è necessario coltivare la fratellanza e l’ospitalità. La sterilizzazione dei rapporti astratti si può superare solo riconoscendo che l’autosufficienza e l’autonomia dell’Io sono le pretese sbagliate di un individualismo radicale che insterilisce l’esistenza. Pretese che talvolta sembrano riuscire a far breccia anche dentro la Chiesa. L’altro – specie quando è piccolo, povero, malato, carcerato, straniero, abbandonato – è sempre una provocazione, talvolta dolorosa ma sempre benefica, per il nostro Io e i nostri sistemi organizzati. Eppure, come dice M. De Certeau, è sempre l’altro che ci salva. Perché è solo accettando di farci prossimi al volto dell’altro – simbolo concretissimo di ciò che effettivamente riconosciamo e amiamo oltre noi stessi – che riusciamo a riappropriarci della nostra umanità.
Senza il movimento dell’uscire – che si declina prima di tutto nell’ospitalità, cioè nel far entrare – verso le periferie esistenziali non sarà possibile riaccendere quel dinamismo vitale da cui emanano innovazione, responsabilità, creatività, concordia. Perché la nostra libertà si esprime appieno solo in un rapporto di affezione, in un movimento che permette di esprimere un modo personale (cioè in relazione) di vedere, di parlare, di fare, di amare. Di essere al mondo. Una lezione che tutti noi, malati di individualismo, facciamo fatica ad imparare.
Non si tratta di pauperismo. È la via per prendere le distanze da quell'”umanesimo malinteso che è conseguenza dell’eccesso antropocentrico”: la realtà circostante non è semplice materia da manipolare, terreno di esercizio della nostra sovranità. È piuttosto il luogo di un incontro sorprendente che, spingendoci oltre noi stessi, le nostre paure e le nostre contorsioni, ci può liberare. E salvare.
Per quanta efficienza possiamo costruire, è solo attraverso la cura – un verbo della reciprocità! – e la tenerezza – quanta umanità passa da una carezza! – che possiamo sanare l’umano e, quindi, noi stessi, restituendo il senso del limite alla nostra autonomia e potenza. E ricreando così anche le basi, che sembrano perdute, della giustizia.

24. Se, come “rete sinodale”, radicata in tutto il Paese, ci facessimo convertire da questi due movimenti dell’uscire – avviandoci verso quell’umanesimo della concretezza verso cui ci sollecita papa Francesco – e del trasfigurare l’annuncio tornerebbe a essere ascoltato, la fede a radicarsi nella carne del Paese, l’intera società italiana a mettersi in cammino.
Tutti sappiamo che l’Italia ha davanti a sé sfide impegnative. Tra cui: – rilanciare l’economia, senza avvantaggiare solo i forti, ma combattendo la disoccupazione (specie giovanile), la povertà diffusa, la desertificazione del sud;
– governare l’emergenza storica dei profughi, con spirito di accoglienza, ma anche con intelligenza e creatività istituzionale;
– accompagnare il cambiamento del profilo demografico del paese, stimolando nuovi rapporti tra le generazioni e sostenendo le famiglie.
Queste sfide sono problemi, è vero. Ma sono anche occasioni per vivificare la nostra Chiesa: perché, se la fede non diventa vita, allora non è fede.
Si tratta, allora, di far nascere, accompagnare, lasciar crescere nuove forme di esperienze fraterne che, trovando risposte concrete ai problemi delle persone e delle comunità, siano capaci di mettere a punto forme istituzionali sensate e innovative, perché non meramente funzionali. Come è del resto accaduto già molte volte nella nostra storia: con i comuni, gli ospedali, i conventi, le università, i convitti per i bambini, le casse mutue, le comunità terapeutiche. Tutte forme istituzionali inventate dal cattolicesimo popolare italiano.
L’umanesimo della concretezza suggerisce di cercare le soluzioni nella tessitura di nuove alleanze. Cominciando dal rimettere insieme l’educazione con il lavoro, la famiglia con l’ospitalità, l’efficienza con il senso.
Non si tratta di cominciare da zero. Le nostre comunità sono già al lavoro. Senza clamore. Si tratta piuttosto di riconoscere le tante esperienze che ci sono, di farle maturare dal punto di vista del metodo e soprattutto di inserirle nella cornice di un cammino comune. Così da evitare che si chiudano nel particolare o si spengano nella solitudine: da secoli, è la capacità di comporre concreto e universale – l’amore dell’altro come segno dell’amore di Dio – in una rete di luoghi, di comunità, di persone, il tratto più profondo e più vivo del cattolicesimo italiano.
Non si può non partire dalla questione “storica” dei rifugiati. Papa Francesco ha invitato a un’ospitalità diffusa (nelle comunità e nelle famiglie) come segno concreto di una Chiesa che, uscendo da sé, si fa interpellare dal destino di ogni essere umano. Quale altra occasione concretissima possiamo avere oggi per dare il senso della potenza creativa della fede?
E poi, con lo stesso stile, si potrebbe lavorare attorno al tema di una generazione di giovani che non studia e non lavora. Non sono forse chiamate in causa l’idea e la pratica dell’educare? E perché allora non pensare di rimettere in gioco i nostri oratori come luoghi di trasmissione intergenerazionale delle competenze lavorative?
E, infine, pensando al cambiamento demografico e generazionale, perché non accompagnare e sostenere, anche mettendo in campo i patrimoni ecclesiali, nuove forme dell’abitare, più consone ai corsi e percorsi di vita, lunghi, articolati, qualche volta tortuosi, delle persone e delle famiglie di oggi? Da qui – e mi domando da dove se non da qui – potrà poi anche nascere una nuova speranza per il nostro Paese. Che, recuperando la tradizione dell’economia civile, sia capace di contrastare l’astrattezza (finanziarizzazione, statalismo, etc.) in favore di uno sviluppo basato su una concretezza aperta all’universale.
All’inizio del XXI secolo, l’uscita dalla crisi finanziaria può essere l’occasione per andare al di là della società dei consumi, verso una società e un’economia capaci di “generare valore condiviso”: che è un ‘crescere insieme’ attraverso la valorizzazione e la contribuzione di tutti. Rilegando ciò che in questi anni è stato slegato: le generazioni, i territori, le istituzioni, le famiglie, le vite.

25. Come si vede, anche oggi, nel tempo che viviamo, la Chiesa italiana ha, nei confronti dell’Italia, una grande responsabilità: essere custode audace e creativa di una storia e di una terra che hanno molto da dire al tempo che l’umanità sta vivendo.
La società italiana ha bisogno di una Chiesa viva. Conquistata dallo Spirito. Lieta nell’abbandonare gli eccessi di specializzazione e burocratizzazione (tutte forme di astrazione) che talora l’hanno ammalata, per diventare sempre più capace di trasfigurazione e in uscita. Maestra di umanità perché capace di parresia e ricca della misericordia del Padre.
Ricordavo all’inizio che, a differenza di sei secoli fa, l’Italia oggi non è più l’epicentro del sistema-mondo.
Ciò è, per molti aspetti, un. Ma può essere, per altri, un’opportunità: forse, non trovarsi “nell’occhio del ciclone” può essere un vantaggio. A condizione che smettiamo un certo nostro provincialismo e assumiamo seriamente, coraggiosamente, fino in fondo – e in modo qualitativamente originale – l’emergere di una dimensione planetaria che ci ha già cambiato profondamente e alla quale possiamo dare un contributo prezioso.
Il compito che ci aspetta non è facile, ma é entusiasmante. E, soprattutto, è quello che hanno saputo svolgere i nostri padri, prima di noi. Mai come oggi si tratta di essere lievito e sale. Per far crescere e dar sapore alla nostra storia comune.