V CONVEGNO ECCLESIALE NAZIONALE – FIRENZE, 11.11.2015

 

Imago_Mundi_83769_pr-300x200Il testo isaiano proposto questa mattina alla nostra attenzione orante è tra le pagine più commentate e controverse di tutto l’Antico Testamento, e viene tratto da quello che è comunemente definito il Quarto canto del Servo del Signore, uno, cioè, dei carmi dedicati proprio a questa figura, e che sono stati probabilmente composti dopo l’esilio di Israele a Babilonia.

Ma di chi si stiamo parlando? Chi è colui che il profeta Isaia chiama “il mio servo”? È la stessa domanda che quel funzionario etiope della regina Candace, amministratore dei suoi tesori, di ritorno da un viaggio fatto a Gerusalemme, rivolse a Filippo: «Ti prego, di quale persona il profeta dice questo? Di se stesso o di qualcun altro?» (At 8,34). Chi dunque possiamo riconoscere in quel volto? E in quale modo questa Parola può illuminarci ancora oggi?

La storia dell’identificazione di questo “Servo” è ricca e interessante, e si polarizza intorno a due figure: una, individuale, che di volta in volta è stata vista in personaggi come Mosè, o Giobbe, Geremia, lo stesso Isaia, come si è appena visto (è l’ipotesi fatta dal funzionario etiope); per i cristiani di oggi – abituati oramai ad ascoltare la lettura di Isaia nel lezionario del venerdì santo – come già per i primi cristiani, si parla di Gesù. L’altra identificazione vede invece il Servo, in modo corporativo, nel popolo ebraico, nell’Israele storico, «messo a morte in esilio, riabilitato con il ritorno in patria e riconosciuto innocente dai popoli» ; quest’ultima è l’interpretazione che prevale per l’ebraismo.

Giova dire subito che sul piano storico la lettura collettiva non crea alcun problema, e, anzi, è probabilmente quella che più di altre rispetta l’intenzione del testo: il popolo di Israele è davvero quel servo (e infatti così viene chiamato varie volte nella Bibbia) che umiliato dalla potenza babilonese, ora è riscattato inaspettatamente dall’editto di Ciro. Ancora oggi questa lettura, applicata al popolo di Israele, suscita interesse, se anche per un noto rabbino americano le parole che abbiamo ascoltato si adattano bene a descrivere tutte le prove vissute dagli Ebrei nella storia, compresa la Shoah dello scorso secolo. In questo modo, tra l’altro, nell’immagine di quei Gentili che si meravigliano del Servo sofferente, egli vede il coro di tutte quelle nazioni che hanno perseguitato il popolo ebraico, e finalmente hanno chiesto perdono, perché si sono rese conto di quello che hanno fatto .

Questa interpretazione ci dice che vi sono intere popolazioni, come quella di Israele che ha vissuto tale esperienza in modo speciale, che possono soffrire; interi popoli che possono essere provati con immensi dolori. Non è difficile vedere come questi drammi ancora si manifestino nelle discriminazioni verso tanti uomini e donne; come vi siano nazioni sfruttate economicamente da altre; che un intero paese può essere messo in scacco da governanti corrotti o da lobby che guardano solo al loro interesse particolare. Pensare che il Servo sofferente di Isaia sia un popolo, ci pone di fronte alle nostre responsabilità di uomini, e a quelle tutte speciali che ci interpellano in quanto cristiani. Il dramma delle guerre che sono in corso in terre non lontane da noi, e i conseguenti movimenti di profughi, non ci possono lasciare tranquilli, perché queste migrazioni forzate sono la prova più concreta per la nostra idea di umanesimo. Abbiamo già fallito una volta nella nostra Europa cristiana, quando abbiamo dovuto constatare che la catastrofe di Auschwitz «ha spezzato le fasce di solidarietà fra tutti quelli che hanno un volto umano» , e ciò ha avuto conseguenze non solo per la teologia («Dov’era Dio ad Auschwitz?»), ma anche per l’antropologia, se ci ha costretto a chiederci «Dov’era l’umanità ad Auschwitz?».

Ma un’altra interpretazione antica del testo apre ulteriori prospettive. Anche se l’idea di un Messia sofferente è praticamente estranea al giudaismo del tempo di Gesù , saranno proprio coloro che vedranno in lui il Cristo che leggeranno il testo isaiano come sua profezia, come una descrizione capace di illuminare almeno due aspetti della sua persona, quelli che riguardano il rapporto di Gesù di Nazaret con le malattie e le infermità, e quello – ancor più misterioso e centrale – che riguarda il suo rapporto con la propria croce.

Veniamo dunque alla questione ancora più importante di quella che abbiamo affrontato finora. Che il Servo del Signore sia il popolo, o un personaggio che è stato messo alla prova come il profeta Geremia, che sia – nella lettura cristiana – il Servo Gesù, la logica sottesa a questa raffigurazione è la stessa, e ha a che fare con una “struttura di salvezza”, il modo cioè con cui Dio salva quel Servo. Sarà dunque davvero importante che a prevalere sia una identificazione della persona del Servo in senso collettivo, oppure in senso individuale? E non sarà forse che queste discussioni, più che a una unità tra i due testamenti, hanno portato ad una cesura tra essi, creando quello che un esegeta recentemente ha definito un «ginepraio un po’ sterile» di interpretazioni? Va ribadito che quando anche Gesù ha applicato su di sé la figura del Servo, dicendo di essere venuto «a servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mt 20,28), non ha annullato il senso originale delle parole di Isaia, e nemmeno l’allusione a quella persona che Isaia poteva aver in mente. Il volto di Cristo Gesù non spazza mai via quello degli altri “servi sofferenti” che l’hanno preceduto, o che lo seguiranno. Certo, però, dobbiamo anche dirci che se noi cristiani vogliamo continuare a vedere Gesù in quel Servo, allora dobbiamo onestamente vederne le conseguenze. Se papa Francesco ci ha ribadito ieri che preferisce una chiesa «accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade», questo per noi è accettabile solo se crediamo fino in fondo che il Verbo di Dio, per essere uscito dal seno del Padre, abbia vissuto una esistenza «accidentata, ferita e sporca» nella nostra umanità.

Ma oltre a concentrarci sulla domanda “di chi stiamo parlando?”, possiamo sottolineare il modo in cui Dio agisce in quella figura, che è, per dirlo col titolo di un libro sul vangelo di Marco, quello dell’impotenza che salva . Per comprendere meglio la logica di questo processo, ci soffermiamo sui singoli passaggi del nostro testo.

1) Anzitutto, ciò che viene detto è talmente nuovo, contro la logica del modo comune di vedere le cose, che risulta difficile da credere: al v. 53,1 ci si domanda «chi avrebbe creduto?» a questo messaggio, che descrive «un fatto mai raccontato» prima (52,15)?

2) Un secondo passo, che si trova al centro del canto del Servo, è quello che descrive quell’uomo nella sua familiarità con la sofferenza e il dolore: «uomo – anch’egli, ma – dei dolori», che è stato «disprezzato ed evitato dagli uomini» (53,3). Non si specifica meglio di quale sofferenza si parli, perché in fondo, dentro questo breve tratteggio, c’è spazio per ogni sofferenza umana. Un commentatore scrive che, «comunque sia, se si parla di “nostri” dolori, di “nostre” malattie, è difficile che noi non li abbiamo provati» . Quei dolori sono vissuti anche da noi, e quell’uomo ha vissuto anche i nostri dolori.

È stato scritto a proposito del vangelo di Marco che poiché la croce è – soprattutto per questo vangelo, ma anche per altre pagine del Nuovo Testamento – il centro del suo messaggio, «allora la bella notizia evangelica consiste proprio nella croce. La croce diventa “vangelo”», perché «nella croce del Figlio dell’uomo vengono rivelati l’identità di Dio e il senso della fede dei discepoli di ogni tempo» . Per questa ragione la sofferenza del Servo, come quella di Gesù-Servo, ci obbliga a cambiare teologia, ci porta a «mettere in discussione le immagini usuali [di Dio, come] quelle del Dio potente e fustigatore dei malvagi […]. La vera e unica immagine di Dio è l’uomo (Gen 1,26-27) e, per i credenti in Cristo, l’uomo crocifisso (Mc 15,24ss)» . I dolori del Servo ci insegnano che Dio non è venuto a liberarci dalle prove, ma ad abitarle, a essere presente in ogni prova di ogni figlio dell’uomo, e la Sua immagine divina non perde grandezza se si riflette anche in un uomo sofferente. Si tratta proprio di una impotenza che salva.

3) Il terzo momento logico di questi passaggi dice che la sofferenza e la morte non sono l’ultima parola. Si tratta di uno snodo fondamentale, perché senza di esso nessuna sofferenza ha senso. È l’esito inaspettato e positivo dell’intera vicenda, di cui il profeta parla in apertura del Canto: «Ecco, il mio Servo avrà successo» (52,13). L’esito di questa logica, il successo, però non deve mai essere staccato dai primi due passaggi. L’onore di cui si parla, l’esaltazione, l’innalzamento, infatti (terzo passo), vengono tutti misteriosamente dalla sofferenza (secondo passaggio), e non si può cessare di stupirsi di ciò (primo passo).

4) Infine, l’ultimo movimento logico della nostra pagina è quello che desta ancora una volta sorpresa: quella sofferenza non è stata sprecata. La salvezza che viene da questa prova porta un bene per tutti: non solo per l’Israele che canta questo Carme, ma anche per le nazioni e i re che di cui si parla al v. 52,15. Si tratta poi di un’occasione di conversione anche per coloro che hanno così crudelmente umiliato quel Servo: anche se non è chiaro come questa sofferenza sia stata inflitta, il testo ebraico al v. 53,5 dice che egli «è stato trafitto – “min”, cioè – dalle nostre colpe, schiacciato dalle nostre iniquità»: ancora una volta, ci siamo dentro tutti, ma tutti siamo stati redenti dalla sofferenza del Servo.

Si può allora parlare di una struttura di salvezza, che è in grado, per la potenza di Dio, di dare scacco e vincere ogni altra struttura, anche la più radicata, di male e di peccato. Come nel Magnificat, «Dio ha spiegato la potenza del suo braccio… ha rovesciato i potenti dai troni», e «ha soccorso Israele, suo servo» (cfr. Lc 1,51.54).

Arriviamo dunque a tre brevi considerazioni conclusive, tre brevi applicazioni di tipo pastorale a partire da quanto abbiamo visto finora.

La prima applicazione riguarda il rapporto tra malattia e misericordia. Il v. 53,4 del nostro testo, «egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori», è particolarmente significativo per i cristiani. È stato infatti scelto dall’evangelista Matteo per spiegare l’attività taumaturgica di Gesù a Cafarnao. Mentre Marco si limitava a descrivere quello che faceva Gesù nella cittadina della Galilea, Matteo, sempre alla ricerca di cose antiche e nuove da tirar fuori dal suo tesoro di scriba (cfr. Mt 13,52), trova nel profeta Isaia una luce che illumina l’opera di Gesù. Scrive al cap. 8, vv. 16-17, che «venuta la sera – cioè alla fine dello Shabbat – gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la parola e guarì tutti i malati, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: Egli ha preso le nostre infermità e si è caricato delle malattie». L’evangelista lascia intravedere che la «buona notizia», il Vangelo, non riguarda solo una novità di dottrina, ma una dimensione esistenziale, la vita intera, anche quella fisica, segnata dalla fragilità. È guarendo le malattie del suo popolo, che Gesù mostra come l’alleanza tra Dio e Israele è stata ristabilita, e che Dio ha perdonato i loro peccati . Ancor prima di diventare Servo dalla croce, quando verserà il suo sangue «per la remissione dei peccati» (Mt 26,28; cfr. 1,21), Gesù è già servo della misericordia, perché non è semplicemente un guaritore al modo dei maghi o dei terapeuti che circolavano nell’antichità: Gesù quelle malattie infatti le «prendeva su di sé», proprio come il Servo del Signore (cfr. Mt 8,17), pagandone infine anche un prezzo conseguente.

La seconda considerazione riguarda la missione. Se ritorniamo al punto da cui siamo partiti, ovvero a Filippo, che «prendendo la parola e partendo da quel passo della Scrittura – il carme del Servo che stiamo meditando – annunciò a lui Gesù» (At 8,35), ci rendiamo conto che questo diacono sa cogliere la giusta occasione: partendo da una domanda del suo interlocutore, riesce ad annunciare all’eunuco il vangelo, la buona notizia su Gesù (At 8,35). I discepoli del Servo Gesù hanno imparato da lui, e non hanno avuto paura di annunciare le sue sofferenze. Non hanno mai parlato solo della sua esaltazione e della sua gloria, ma sono partiti dalla prova del dolore e della morte, che ha reso quel Servo solidale con tutti noi. Questo spazio di annuncio e di servizio rimane abbondantemente aperto anche per la nostra chiesa, che infatti si caratterizza, in questo paese, per un’azione importante verso tutti i tipi di sofferenza e di povertà. Se poi, come alcuni studiosi hanno ipotizzato , Gesù ha davvero scelto Cafarnao perché lì vicino vi era una specie di ospedale legato alle fonti termali di Tabga, che si credeva avessero capacità curative – e questo fatto giustificherebbe la presenza di così tanti malati in quella zona – allora comprendiamo perché Gesù ha voluto abitare lì, in quel villaggio che, come scrive Matteo 9,1, divenne «la sua città». Sembra infatti che Gesù, “profeta dei villaggi”, come è stato recentemente definito, abbia cercato «un punto di vista periferico e marginale», Cafarnao, e non Gerusalemme, o Tiberiade, o un’altra capitale. La stessa cosa si può dire delle sofferenze: avrebbe potuto evitarle (non era a questo che Satana lo invitava?), ma proprio perché aveva già scelto «la marginalità [geografica] non come ripiego e rinuncia, ma come punto di forza» , ha scelto anche ciò che in apparenza è disumanizzante, il dolore, ma che invece ci rende tutti uguali, tutti umani, come occasione per avvicinarsi agli altri uomini.

Come terza e ultima considerazione pastorale, si può dire che la chiesa deve ritrovare in Gesù-servo il modello da seguire. Anche Gesù aveva avuto come modelli di riferimento uomini e donne che si erano fatti servi: il Servo di Isaia, Mosè, Geremia, il Battista, e altri ancora, che avevano servito il suo stesso popolo; come Rut, antenata di Gesù (Mt 1,5), che aveva aiutato umilmente la sua suocera Noemi. Più in particolare: se Gesù ha imparato ad essere giusto da Giuseppe, l’uomo giusto – come lo ritrae l’evangelista Matteo (Mt 1,19) –, e proprio per questo Gesù è stato chiamato “giusto” dalla moglie di Pilato (Mt 27,19), allora dalla madre, Maria, Gesù ha imparato ad essere servo – da colei, cioè, che si è detta, ed è stata, “la serva del Signore” (Lc 1,38). Invochiamo la sua potente intercessione, e quella di tutti i servi del Signore giusti e santi, perché Dio illumini il nostro cammino ecclesiale. Amen.