immnaro“I racconti della creazione nel libro della Genesi contengono, nel loro linguaggio simbolico e narrativo, profondi insegnamenti sull’esistenza umana e sulla sua realtà storica. Questi racconti suggeriscono che l’esistenza umana si basa su tre relazioni fondamentali strettamente connesse: la relazione con Dio, quella con il prossimo e quella con la terra”: così scrive papa Francesco nel n. 66 della sua enciclica Laudato si’, offrendo una chiave di lettura che vogliamo fare nostra per meditare sulla Parola che è stata ora proclamata e che insieme abbiamo ascoltato.

1. Un kairós vocazionale

Innanzitutto la relazione con Dio, che ha una valenza principiale e non semplicemente principale. Quella con Dio, difatti, è per noi non soltanto la relazione più importante fra tutte le relazioni che ci costituiscono, bensì – soprattutto – quella da cui scaturiamo e proveniamo. All’inizio, in principio, c’è il fondamentale rapporto con Dio. Anzi, dobbiamo precisare che questo fondamentale rapporto consiste nella relazione che Dio stesso, Lui per primo, intraprende nei confronti dell’’adâm, chiamandolo ad essere, dandogli la possibilità di esistere. È Dio stesso, il Creatore, che si volge verso l’essere umano, prevenendo ogni sua iniziativa, anzi quando ancora egli neppure esiste. Dio si dedica all’essere umano per farlo esistere. E lo fa esistere per dedicarglisi. Infatti, in Dio, che è l’Eterno, il prima e il dopo, il fine e il tramite sono inestricabilmente intrecciati: si innestano a vicenda e rimangono l’uno il motivo dell’altro e viceversa. Così l’essere umano, al culmine del sesto giorno, viene creato per essere interpellato ed è interpellato per essere creato. Tutto questo avvertiamo quando ascoltiamo il timbro assoluto della parola divina: «Facciamo l’uomo». A chi rimanda questa strana coniugazione plurale del verbo fare? Se davvero è Dio che sta parlando in quel supremo momento, allora certamente sta parlando l’Unico. Con chi sta perciò parlando? Le interpretazioni, nel corso dei secoli, sono state varie. Alcuni Padri della Chiesa sentivano riecheggiare in questo plurale colto sulle labbra del Creatore un implicito annuncio dell’identità trinitaria di Dio: essi, però, in questo modo intendevano il testo biblico col senno di poi, se così possiamo dire. Alcuni esegeti moderni, invece, hanno pensato a un plurale maiestatis o deliberationis, vale a dire a un modo di esprimersi tipico dei prîncipi e dei re che parlano di fronte alla loro corte, in mezzo ai loro ministri e dignitari: una formula retorica, questa, che comunque nella letteratura biblico-ebraica è usata raramente. Altri esegeti contemporanei, più recentemente, ipotizzano che il plurale con cui qui il Creatore si esprime sia letterariamente corrispondente al termine “Dio”, che in ebraico, in questo brano genesiaco, è Elohim, appunto un termine plurale. Noi, pur senza ignorare l’importanza di tutte queste interpretazioni, possiamo forse spingerci a dire che il plurale con cui Dio parla è propriamente interlocutorio, colloquiale, come tale già includente l’essere umano, già rivolto a lui: Dio crea l’essere umano rivolgendoglisi, anche se ancora l’essere umano non esiste; e gli si rivolge proprio per far sì che esista. In questo senso la creazione dell’essere umano è un evento relazionale, è un kairós vocazionale: Dio crea l’essere umano non semplicemente parlando di lui tra Sé e Sé, o chissà con chi, ma proprio parlando con lui. E Adamo, così creato, viene reso responsabile: reso abile, cioè, a dare una risposta a Chi gli rivolge la Parola, abilitato a rispondere a Chi gli si comunica.

Così compreso, il «facciamo l’uomo» di Gn 1,26 contiene l’imprinting relazionale dell’umanesimo biblico, nel cui solco l’orante del salmo 8 tenterà di sapere chi sia l’essere umano domandandolo a Dio stesso, ancora una volta nell’orizzonte di una costitutiva interlocuzione («Chi è l’uomo, perché tu te ne ricordi? Il figlio dell’uomo, perché tu te ne prenda cura?»): l’essere umano è tale in quanto suscitato all’interno di una relazione, in quanto chiamato alla relazione. Fin dall’inizio egli è come contagiato dall’attitudine dialogica di Dio stesso, Colui che è l’Unico sì, ma senza mai essere autoreferenziale e senza mai restare solitario.

Questo imprinting relazionale – che significa smarcarsi dall’autoreferenzialità, accettarsi dalle mani altrui per poter essere responsabilmente se stesso, essere rivolto a qualcuno – disegna sin dal principio il volto umano dotandolo di caratteri tipicamente personali, conferendogli cioè la capacità di esprimere la propria identità rievocando l’altro: per dire, insomma, che l’essere umano in tanto è se stesso in quanto è dall’altro, per l’altro, con l’altro, ancora una volta – come papa Francesco suggerisce nella Laudato si’ n. 66 – riconoscendo il valore dell’alterità in ogni senso, in ogni direzione possibile: verso il prossimo e verso il mondo, oltre che verso Dio.

2. L’alterità come intimo punto di forza dell’’adâm

Nel racconto genesiaco, il prossimo, sacramento dell’alterità, è chiamato in causa subito e in termini radicali: «Dio creò l’uomo secondo la sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò». Il plurale di nuovo fa capolino a sorpresa nel racconto. Non per smentire l’unicità dell’essere umano creato a immagine e somiglianza di Dio (dell’Unico), ma per sostenere questa medesima unicità dal suo stesso di dentro, per darle corpo, spessore, consistenza concreta. L’alterità, così, non è una dimensione estrinseca all’essere umano, non gli rimane esterna. È, piuttosto, una dimensione a lui interna, interiore a tal punto da risultare per lui costitutiva. Non il limite con cui dovrà scontrarsi, la minaccia da cui dovrà difendersi, ma il suo intimo punto di forza, la sua migliore possibilità. Alcuni commentatori hanno evidenziato, già tempo fa, che il termine ebraico ’adâm, in questo nostro testo biblico, ha un senso collettivo. L’essere umano è segnato in profondità dall’alterità, a tal punto da risultare un soggetto plurale, il cui profilo è destinato a essere comunitario, il cui respiro dovrà essere comunionale. Per l’essere umano non si tratterà semplicemente di tollerare l’alterità attorno a sé, ma di ospitarla in sé, di riconoscerla e di accettarla come la sua fondamentale regola grammaticale, come la sua sintassi esistenziale: dal sesto giorno della creazione in poi, l’essere umano dovrà portarsi dentro l’altro e dovrà portarsi l’altro dentro. Vuol dire che l’essere umano dovrà declinarsi per sempre al plurale, basando la sua vita sulla valorizzazione dell’alterità, sulla distinzione non divaricante, nell’incrociarsi degli sguardi, nell’accoglienza reciproca, nell’incontro fiducioso e nel contatto generoso, nel rispetto delle differenze, nel superamento delle diffidenze.

Può significare questo il merismo formulato nel racconto biblico: «maschio e femmina li creò». Il merismo è una figura retorica, tipica della letteratura semitica, che nella Bibbia esprime la totalità di un qualcosa, indicandone le due parti estreme e contrapposte. Per esempio, un merismo biblico è «cielo e terra», con cui inizia il libro della Genesi («In principio Dio creò il cielo e la terra»: Gn 1,1) e che rivela l’assetto polare di tutta la realtà, la quale risulta dall’intreccio di un sopra e di un dentro, di trascendenza e di prossimità, di donazione e possesso, di reciprocità e identità. Maschio e femmina sono il cielo e la terra dell’essere umano: il loro esigersi a vicenda indica che sono ciascuno in forza dell’altro, grazie all’altro, per l’altro.

3. Creturalità e creatività

Nel racconto genesiaco emerge subito anche la relazione con la terra e col mondo. Il nome stesso dell’essere umano, ’adâm, rimanda alla terra, significa esser tratto dalla terra, dalla ’adamah, come un secondo racconto della creazione – in Gn 2,7 – annuncia.

Riguardo alla terra l’essere umano è demandato dal Creatore a esercitare un «dominio», che tuttavia non si può intendere e praticare in modo arbitrario e dispotico. L’essere umano potrà dominare «sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo» e su ogni altro animale «sulla terra», non per il proprio tornaconto, ma in quanto – come immagine di Dio – dovrà rappresentare Dio stesso nella creazione, quasi fosse un suo luogotenente, o quasi fosse l’etichetta che su un prodotto di qualità ne segnala l’origine e la provenienza, il suo certificato di garanzia. L’autorità dell’essere umano sul creato, perciò, sarà riflesso di quella di Dio: l’essere umano non potrà spadroneggiare, abusare, sradicare, violentare, sperperare, esaurire, estinguere le risorse vitali affidategli; dovrà semmai aumentare e moltiplicare come si addice a un «amministratore responsabile», ha detto il papa nell’Angelus di domenica scorsa (8 novembre), e – come si legge nell’altro racconto della creazione in Gn 2,15 – dovrà coltivare e custodire la terra. Nel testo ebraico questi ultimi due verbi sono ’abad e šamar, che significano letteralmente servire e osservare (guardare, contemplare, interpretare). Così l’essere umano dovrà esercitare la creatività, vale a dire il suo somigliare a Dio, nella consapevolezza che questa creatività non potrà mai distillarsi rispetto alla creaturalità, cioè all’essere immagine. Al tramonto del sesto giorno, dopo aver creato ’adâm e avergli affidata la terra, Dio vide che quanto aveva fatto era «cosa molto buona»: ciò che qui è molto buono è l’essere umano in seno al mondo, non a prescindere dal mondo. Rispetto alla creazione tutta quanta l’essere umano è, dunque, il valore aggiunto, ma non può presumere di essere un valore assoluto.

4. Il sì di Dio alla sua prima promessa

In realtà, l’’adâm è costituito come vivente crocevia tra il Creatore e il creato, in relazione con entrambi: col Creatore in quanto da Lui proveniente, e col creato in quanto in esso situato. Nel messaggio biblico, la sua iconicità, cioè il suo essere a immagine di Dio, significa al contempo avere come principio Dio e come consegna il mondo. A partire da questa narrazione possiamo intendere l’essere umano come la prima promessa fatta da Dio alla creazione, promessa destinata a essere portata a un ulteriore e più maturo compimento. Tertulliano, nel terzo secolo, scrisse a tal proposito che Adamo è stato creato così come il Verbo divino stesso si sarebbe un giorno incarnato, già rivestito dunque dell’immagine «futura» di Cristo (Sulla risurrezione della carne, 6). Difatti, come afferma san Paolo, Cristo Gesù – «Immagine visibile del Dio invisibile» (Col 1,15) – impersona il «sì» di Dio a tutte le antiche promesse (2 Cor 1,19), a cominciare proprio da quella pronunciata con le parole che chiamano all’esistenza Adamo: «Facciamo l’uomo a nostra immagine».

L’Invito e la Traccia, preparati in vista del V Convegno ecclesiale nazionale, esprimono questa intuizione spirituale citando lo Scritto a Diogneto, un documento patristico che sul finire del II sec. – parafrasando insieme Gn 1,26 e Gn 2,7 – afferma che «Dio plasmò gli uomini dalla sua propria Immagine» (10,2). Vale a dire, non semplicemente a partire dalla polvere terrestre bensì a partire dall’Icona sua più intima: l’Immagine increata che da sempre Dio ospita dentro di Sé, il suo stesso Logos, che è proprio il dirsi di Dio, il suo comunicarsi e perciò il suo darsi, il suo mettersi in rapporto, il suo porgersi nella relazione.

L’essere umano proviene dall’Intimo di Dio e, quindi, è impastato di Dio stesso, tanto da rappresentarlo sin dentro al creato. L’arte cristiana ‒ qui in Italia ‒ ha saputo esprimere questa verità mille volte. L’ha espressa anche nei grandi mosaici che adornano il duomo di Monreale, dove è raffigurata la creazione. Il Creatore vi è iconografato sempre come un ricco signore, rivestito della sua veste più preziosa e con i calzari ai piedi, un po’ come il padre di cui si racconta nel vangelo di Luca (15,22), desideroso di partecipare la sua signoria all’erede prediletto. Nel quadrone che illustra la creazione di Adamo, però, Dio non calza più i suoi sandali. Il Creatore incrocia lo sguardo di Adamo e il suo volto si riproduce tale e quale in quello dell’essere umano appena creato, disteso nudo di fronte a Lui, mentre però, stranamente, i suoi piedi appaiono scalzi. Dio, creando Adamo e facendo risplendere su di lui il proprio volto, si scioglie finalmente i sandali, vale a dire – secondo un significato simbolico che attraversa l’intero racconto biblico e riemerge nei vangeli, lì dove al Battista si fa dire di non esser degno di «sciogliere i legacci» al Cristo – sancisce un’incrollabile alleanza. Dio, proprio creando Adamo, ha ormai rimosso ogni diaframma tra Sé e la sua creazione, ha oltrepassato ogni trascendenza, ha accorciato ogni distanza e ha stemperato ogni distinzione, proiettandosi nel cuore del mondo (come ha scritto don Divo Barsotti nel suo libro Il Dio di Abramo: l’ esperienza di Dio nella Genesi). L’’adâm, creato da Dio, è la sua orma nella creazione, deputata a segnalare che di lì Dio è passato, ancorché col suo calco vuoto – cioè con le sue fragilità e con le sue povertà, persino col suo peccato – potrà talvolta dare, anzi possiamo anche dire, riconoscendoci in Adamo e nella sua terrena debolezza, potremo talvolta dare l’impressione di significare assenza piuttosto che presenza.

 

don Massimo Naro
Docente di teologia sistematica nella Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia (Palermo).