Nella Lettera ai Fedeli S. Francesco divide l’umanità in coloro che fanno penitenza e coloro che non fanno penitenza. I primi sono figli del Padre, sposi, fratelli e madri del Signore nostro Gesù Cristo, mentre i secondi sono figli del diavolo.
Di più. I primi fanno la volontà del Padre e sono “beati e benedetti”, mentre i secondi sono “prigionieri”, “ciechi perché non vedono la vera luce, il Signore nostro Gesù Cristo” e “ingannati dalla carne, dal mondo e dal diavolo”.
La piena realizzazione della persona, la perfetta letizia provengono da una dipendenza, da una generazione, mentre l’“angoscia” e la “tribolazione” sono il frutto del rifiuto di questa dipendenza dal Creatore.
L’inquietudine dell’uomo contemporaneo, che ha creduto di potenziare il soggetto umano esasperandone a tal punto l’autonomia da rinunciare alla comunione col Creatore e col Redentore, trova una risposta, una soluzione, un superamento nell’esperienza elementare realistica e benefica di una dipendenza che lo genera come persona e che realizza l’umano.
Tale visione dell’uomo chiamato ad essere figlio del Padre è sottesa a tutta la “Veritatis Splendor” che focalizza nel dialogo del giovane ricco con Gesù la domanda di felicità che alberga in ogni uomo che vuol comprendere se stesso e che riconosce l’insufficienza della sua ammirevole osservanza dei comandamenti.
La risposta di Gesù è la sequela della sua stessa persona ed essere così “figli del Padre nel Figlio”.
Ma “seguire Gesù non è un’imitazione esteriore… Essere discepoli di Gesù significa essere resi conformi a Lui”(VS 21). Aderire alla persona di Gesù, condividere concretamente la sua vita e il suo destino significa partecipare alla sua obbedienza libera e amorosa alla volontà del Padre.
Non è forse per questo che S. Francesco propone ai frati di seguire la “vera e santa obbedienza del Signore nostro Gesù Cristo” (FF 20) che si qualifica nella reciprocità?
Non è l’obbedienza di una caserma! Il superiore non deve essere “temerario” al punto di usare la sua autorità come fosse “una spada in mano ad un pazzo”(FF 737). Anzi il ministro stesso deve obbedire al Padre offrendo al suddito la misericordia divina.
Nella Lettera a un ministro leggiamo:
“Io ti dico, come posso, per quello che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti sono di impedimento nell’amare il Signore Iddio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri anche se ti coprissero di battiture, tutto questo devi ritenere come una grazia. E così tu devi volere e non diversamente.
E questo tieni in conto di vera obbedienza da parte del Signore Iddio e mia per te, perché io fermamente riconosco che questa è vera obbedienza.
E ama coloro che agiscono con te in questo modo, e non esigere da loro altro se non ciò che il Signore darà a te. E in questo amali e non pretendere che diventino cristiani migliori.
E questo sia per te più che stare appartato in un eremo.
E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore ed ami me suo servo e tuo, se ti diporterai in questa maniera, e cioè: che non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato, quanto è possibile peccare, che, dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne torni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede; e se non chiedesse perdono, chiedi tu a lui se vuole essere perdonato.
E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attrarlo al Signore; ed abbi sempre misericordia per tali fratelli”(FF 234-235).
“Il suddito deve considerare nel suo superiore non l’uomo, ma Colui per amore del quale si è reso suddito”(FF 735). E deve porre come unico limite all’obbedienza la propria coscienza, pur agendo nella carità verso il superiore poco illuminato.
Nella terza Ammonizione leggiamo:
“Abbandona tutto quello che possiede e perde il suo corpo colui che sottomette totalmente se stesso all’obbedienza nelle mani del suo superiore. E qualunque cosa fa o dice che egli sa non essere contro la volontà di lui, purché sia bene quello che fa, è vera obbedienza.
E se qualche volta il suddito vede cose migliori e più utili alla sua anima di quelle che gli ordina il superiore, volentieri sacrifichi a Dio le sue e cerchi invece di adempiere con l’opera quelle del superiore. Infatti questa è l’obbedienza caritativa, perché compiace a Dio ed al prossimo.
Se poi il superiore comanda al suddito qualcosa contro la sua coscienza, pur non obbedendogli, tuttavia non lo abbandoni. E se per questo dovrà sostenere persecuzione da parte di alcuni, li ami di più per amore di Dio. Infatti, chi sostiene la persecuzione piuttosto che volersi separare dai suoi fratelli, rimane veramente nella perfetta obbedienza, poiché sacrifica la sua anima per i suoi fratelli.
Vi sono infatti molti religiosi che, col pretesto di vedere cose migliori di quelle che ordinano i loro superiori, guardano indietro e ritornano al vomito della propria volontà. Questi sono degli omicidi e sono causa di perdizione per molte anime con i loro cattivi esempi”(FF 148-149).