La prima Parola di Dio è “fiat” e si riferisce alla creazione. In essa vi è l’annuncio della Parola di Dio originale.
Secondo S. Bonaventura la Parola di Dio della Sacra Scrittura è la seconda Parola di Dio, rivelata all’uomo attraverso il tempo, perché potesse essere di nuovo in grado di interpretare la prima Parola di Dio, la creazione di cui, dopo il peccato, l’uomo ha perso la capacità di cogliere la sacralità. Il mondo è stato così ridotto a un meccanismo di cui appropriarsi per farne uso e abuso, a una “res extensa” (direbbe Cartesio) da conoscere profondamente allo scopo di dominare il mondo secondo il proprio arbitrio. Esso non è stato custodito come un “giardino” nel rispetto della volontà del Creatore per collaborare con Lui all’opera della creazione. La sacralità della Parola di Dio è stata rinchiusa nella Sacra Scrittura, mentre il mondo è stato visto come materia totalmente estranea al sacro e, quindi, da sfruttare impunemente e senza freni: “I potenti non si accontentano mai dei profitti che ottengono” (QA 52).
La spaccatura tra Sacra Scrittura e mondo, ha portato a considerare il mondo come una zona neutrale in cui ogni intervento umano sia ammissibile. Anzi c’è stato anche chi, citando la Genesi, si è basato sulla Sacra Scrittura per giustificare la volontà di dominare il mondo. Questa mentalità è all’origine dei problemi ecologici che sono ormai sotto gli occhi di tutti. Il Cantico delle creature è un invito attualissimo anche al giorno d’oggi a riscoprire il mondo come Parola di Dio, riconciliatrice e pacificatrice. Vivendo il mondo come Parola di Dio, il santo di Assisi gli restituisce la dignità originaria che esso aveva appena uscito dal dito di Dio, dalla sua potenza creatrice.
Il Cantico, opera che segna il culmine della maturità, della profondità e altezza del cammino di conversione di S. Francesco, è l’annuncio della salvezza assicuratagli dal Signore in un momento critico della sua vita in cui è in preda a tribolazioni e tentazioni del demonio, al punto da irrompere in questo grido di aiuto: “Signore, vieni in soccorso alle mie infermità, affinché io sia capace di sopportarle con pazienza!” (FF 1614). E subito il Signore lo rassicura chiamandolo “fratello”.
È significativo che proprio nel momento in cui S. Francesco avverte più fortemente il senso dei propri limiti di fronte all’altezza inaccessibile di Dio, egli si senta salvato dal Signore. È il suo senso di finitezza a indurlo al riconoscimento che le lodi spettano solo a Dio e non a se stessi o al mondo: “ad te solo Altissimo se konfano”. Egli si rende conto di non poter nemmeno “nominare” il nome dell’“Altissimo”: “Et nullo homo ène dignu te mentovare”.
L’uomo è finito e Dio è infinito. Perciò non gli può dare il nome. L’onomaturgia, il dare nome alle cose da parte dell’uomo, compito che il Creatore stesso gli ha affidato, non può valere per Dio. Dire che Egli è l’in-finito vuol dire che non è finito, ma si rimane sempre nell’ambito proprio dell’uomo, che è il finito e non si dice nulla di Dio, se non in negativo. Per questo il Cantico dice: “Nullo homo ène dignu te mentovare”. E nella I Ammonizione l’autore del Cantico, riecheggiando S. Paolo (1Tm 6,16), dice: “Dio abita una luce inaccessibile” (FF 141).
Più ci si vuol appropriare della Parola di Dio, più Dio ci sfugge dalle mani e più ci perdiamo. S. Francesco si salva per aver riconosciuto l’abisso incolmabile tra finito ed infinito, poiché l’infinito sarà sempre un oltre, un al di là e non si identificherà mai col finito.
In preda a una profonda crisi esistenziale, S. Francesco non potendo dare il nome a Dio, portandolo al suo livello come fosse un suo pari, si rivolge al “mentovare” di Dio, alle parole che Dio ha detto e che sono in primis le creature: “Laudato si’ mi Signore, cum tucte le tue creature”. Sono queste le parole che nominano Dio. Il sole, la terra, il vento, il fuoco, l’aria, le stelle non sono oggetti inerti come noi li riteniamo, ma sono viventi, fratelli e sorelle, all’uomo consanguinei. Allora anche il santo di Assisi si avverte come parola di Dio sempre in tensione verso l’Altissimo a cui soltanto rivolge tutte le sue lodi. Nonostante fosse tanto sofferente da essere “mosso a pietà verso se stesso” (FF 1614) e i suoi occhi non potessero sostenere la luce del sole e del fuoco, egli esplose in questo cantico che esprime l’esultanza per la salvezza promessagli dal Signore dopo che egli aveva riconosciuto e accettato, quale nuovo Adamo, di non essere pari a Dio. Di questo esempio ha bisogno l’uomo del nostro tempo per ricuperare la dignità originaria della creaturalità espressa dall’appellativo “fratello” con cui Cristo chiama S. Francesco al termine della sua vita, discendendo al suo livello per donargli la sua grandezza. È questa la kenosis di Dio, che accompagna e richiede la kenosis dell’uomo ovvero l’accettazione umile e l’assunzione della propria limitatezza che gli consente di ricevere la grazia di partecipare alla gloria di Dio.
Il mito di Sisifo esprime il dramma dell’uomo che cerca la pienezza, ma non la raggiunge. Egli deve sempre ricominciare da capo perché la totalità è irraggiungibile dall’uomo ed è solo di Dio. Il linguaggio dell’uomo muore comunque, con o senza fede, in quanto non può raggiungere la pienezza, la totalità, l’infinito. Non è la fede a ucciderlo. La differenza è che chi ha fede accetta, assume la morte della pretesa di dire la totalità, di dire Dio. È questa la kenosis dell’uomo. I laicisti rifiutano la kenosis dell’uomo, perché temono di sentirsi diminuiti come uomini. Invece l’uomo nella fede viene potenziato nelle sue possibilità perché si apre al fatto che Dio gli parli e si comunichi a lui in spirito di comunione fraterna, come vediamo nel Cantico delle creature, espressione del raggiungimento della pace, della riconciliazione cosmica di tutto il creato nello spirito della perfetta letizia raggiunta da S. Francesco d’Assisi al termine della sua vita terrena.

Lucia Baldo

Il Cantico