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Se osserviamo la storia dell’umanità vediamo il riproporsi dell’uccisione del fratello Abele, rinnovata nelle violenze, nelle guerre per il dominio dei forti e l’asservimento dei deboli, nella sperequazione dei beni di consumo, nel sistema di latrocinio perpetrato dal potere economico e politico, nella dura condanna verso popoli che muoiono di stenti, nell’uccisione degli indifesi con l’aborto e l’eutanasia… L’uomo accusa l’uomo come suo avversario e cerca di sopraffarlo. Sembra che il progresso tecnologico abbia amplificato la possibilità di morte della fraternità umana.
All’origine della frantumazione dell’umano c’è la rottura del rapporto con Dio. L’uomo vuole essere dio di se stesso non accettando la sua dipendenza da Dio, la sua creaturalità. Non accetta di stare in un rapporto radicale col Creatore. Non accetta che sia l’Altro a dare senso alla sua vita, ma pone l’io come punto di partenza del progettare e dell’agire.
Col peccato originale l’uomo “si appropria la sua volontà” (FF 147) e recide ogni rapporto ponendo l’accusa, la condanna… al posto della comunione: l’uomo accusa Dio di avergli messo accanto la donna e la donna accusa il serpente di averla ingannata.

 

L’egocentrismo è teorizzato dalla cultura moderna che, partendo dal motto: “cogito ergo sum”, ha usurpato lo spazio del divino ed ha posto nell’io l’ultimo senso.
Lo sbaglio del pensiero moderno occidentale è stato quello di enfatizzare l’uomo, cioè di prendere interesse per l’individuo nella misura in cui è cosciente e crea un certo mondo, frutto dei suoi pensieri originati dalla coscienza. L’io non può conoscere se stesso a partire da sé.
Ma è molto incoraggiante il fatto che la cultura contemporanea si stia aprendo alla visione personalistico-dialogica (vedi Romano Guardini, Emmanuel Levinas, Max Scheler…). L’uomo non è più il centro d’azione, progettazione, valorizzazione di sé, ma è persona in quanto è un Io che si rapporta ad un Tu.

 

Dall’orgoglio di diventare dio di se stesso l’io può uscire soltanto ponendosi di fronte all’Altro, a colui che dà senso ad ogni essere.
Secondo il ragionamento cristocentrico bonaventuriano ci sono “due modi di essere: l’essere che è da sé, per sé, secondo sé; l’essere che è da altri, per altri, secondo altri… Se l’essere ha in se stesso la sua origine, allora ha anche in se stesso il suo significato e il suo fine; se invece un essere ha origine da altri, allora è secondo altri (ha altrove il suo esemplare di significato) ed è finalizzato ad altri” (V. C. Bigi, Studi sul pensiero di S. Bonaventura, S. Maria degli Angeli, 1988, p.335).
Ossia ciò che dà l’essere alla creatura è anche ciò attraverso il quale essa può venire pienamente conosciuta (“Idem est principium essendi et cognoscendi”).
È l’Altro che dà senso alla mia vita. Sono solo creatura e, in quanto tale, sono in un rapporto radicale col Creatore. Prima di cominciare ad essere io, cioè prima di cominciare ad avere coscienza di me, il mio essere significa l’Altro.
Prima di essere cosciente l’uomo è stato creato, è stato deciso dall’Altro quando lo ha creato. Ontologicamente l’uomo è passivo. Non può dire: “io sono”, perché è stato creato.
La persona si deve formare attraverso una relazione primaria e creante con il Tu divino.
Non è forse questo il significato dell’essere creatura?
Non è forse questo il senso della domanda di S. Francesco: “Chi se’ tu, o dolcissimo Iddio mio? Che sono io, vilissimo vermine e disutile servo tuo? (FF 1915)?

 

La nostra vita ha pieno valore solo quando è segno dell’Altro. Ma per esserlo dobbiamo amare come Cristo ci ha amato e non come noi sappiamo amare.
Il nostro cuore è malato! Noi dalle lacrime sappiamo trarre profitto (cfr. FF 718).
“… solo la carità risana l’affetto. Infatti l’amore, secondo Agostino, è la radice di tutti gli affetti. È dunque necessario che l’amore sia risanato, altrimenti tutti gli affetti sono distorti; ma non si può risanare se non per mezzo dell’amore divino” (S. Bonaventura, La sapienza cristiana, Le Collationes in Hexaemeron, MI 1985, p.127).
Per arrivare a questo è fondamentale rinnegare noi stessi, diventare poveri in spirito, cioè spogliarci dello spirito della carne e farci plasmare dallo spirito di Dio per avere la sapienza del Padre.
Senza questa purificazione-conversione anche le migliori intenzioni diventano insignificanti o scadono in preoccupazioni mondane (cfr. FF 203) o mercificano il bene fatto cercandone una ricompensa (cfr. FF 178).

 

L’essere segno dell’Altro si invera nella prossimità all’altro, ossia nell’avere la capacità di costruire la fraternità umana.
Essa non è qualcosa di esteriore che viene dopo che io ho realizzato me stesso, ma realizza me stesso, la mia soggettività. Io sono nella misura in cui mi riferisco all’altro.
Il pensiero francescano ha sempre considerato la fraternità umana come fondamentale per la realizzazione della persona e il popolo francescano ha il compito di comunicarlo al
mondo.
S. Francesco ha realizzato la prossimità, non ha fatto altro! È stato prossimo di tutti.
In questo modo è stato un perfetto cristiano, testimone di questo radicale valore che è la prossimità: non è stato per se stesso, secondo se stesso, da se stesso, ma per altri, secondo altri, da altri.
Ha colto il valore della prossimità come testimonianza dell’Altro di cui siamo segno.
La nascita dell’Ordine Francescano è conseguenza dell’intuizione della prossimità che coinvolge l’universo e si propaga all’infinito: l’umanità è vista nella prossimità.
È questa la forza dello spirito francescano.
Nel Medioevo il monachesimo restringeva la fraternità dentro le mura delle cittadelle. Ma poi nacquero tanti movimenti carismatici fra i quali c’era quello dei Fratelli della Penitenza di Assisi che venne elevato ad Ordine della Chiesa assumendo il compito di dare la testimonianza della fraternità.